Fino a qualche anno fa, mai ci saremmo immaginati di porci l’interrogativo se fosse lecito o meno usare il Tu in terapia. A meno che non fossimo professionisti che si relazionano a bambini o adolescenti, mai ci saremmo posti il dilemma se dare o meno del TU a un paziente.
Dall'altra parte, invece, è frequente che un paziente possa chiedersi se dare del Tu o del Lei allo psicologo.
Con l’avvento delle nuove tecnologie e i servizi online che offrono il trattamento di psicoterapia da remoto, questa certezza ha cominciato a vacillare: scopriamone le motivazioni e valutiamone le implicazioni cliniche.
La storia delle forme di cortesia nella lingua italiana
Che cosa ha rappresentato fino ad oggi il “lei” nella vita quotidiana nella nostra lingua di origine? Dare del lei è una forma di cortesia che si è evoluta e trasformata nel tempo. Prima ancora del lei, si utilizzava il Voi ma, ancor prima, si usava solo il pronome Tu per tutti, senza discriminazioni.
Il Voi è stata la prima forma di cortesia della lingua italiana e si colloca temporalmente nel lontano Medioevo. Successivamente, si diffuse anche l’utilizzo del Lei. Entrambe le forme di cortesia coesistettero fino al ‘900 lasciando l’utilizzo del Tu per rivolgersi a amici, parenti e conoscenti stretti. Oggi il Lei è diventato l’unico pronome di cortesia utilizzato nella nostra lingua, come forma di cortesia da preferire.
Questa premessa, apparentemente lontana dalla psicologia, ci è utile per dimostrare che le parole sono strumenti, che possono avere finalità ideologiche e connotazioni simboliche.
Usare il Tu è un rischio nella relazione terapeutica?
Formalmente, la lingua italiana prevede che il Lei sia il pronome da prediligere quando ci si rivolge a un interlocutore col quale non si ha confidenza e/o che ricopre ruoli di natura sociale, professionale o generazionale che collocano le due parti in una relazione più asimmetrica (ad esempio una carica pubblica, un funzionario o semplicemente una persona con età superiore).
Applicando questa regola in maniera rigorosa, va da sé che ci si rivolge allo psicoterapeuta e al paziente utilizzando l’appellativo Lei, in quanto tutte le interazioni si svolgono all’interno di una relazione la cui connotazione professionale identifica i due interlocutori come cliente (il paziente o l’utente) e professionista (il terapeuta).
Rivolgersi reciprocamente con l’utilizzo del Lei diventa una regola di setting, accanto a tanti altri elementi (orario e frequenza delle sedute, il costo delle sedute, la riservatezza dello studio) importanti da considerare quando si predispongono e concordano le condizioni per un percorso terapeutico.
Partendo da queste premesse, un occhio clinico allenato che osserva il modo in cui paziente e terapeuta utilizzano il lei o il tu, può accorgersi di molteplici sfumature nel processo terapeutico, spesso utili nella relazione di cura quando sono riconosciute e significate.
Ad esempio, ipotizzare di dare del Tu a un terapeuta, così come a un medico, potrebbe nascondere la fantasia di voler annullare la natura asimmetrica della relazione tra clinico e paziente e spostare la relazione in una dimensione amicale di confidenzialità e in spazio di mero “sfogo”.
Oppure, se il paziente inizia a utilizzare il Tu, si potrebbe ipotizzare un tentativo, più o meno volontario, magari inconsapevole, di manipolare il setting. Sintonizzarsi sul Tu, senza porsi e porre i giusti interrogativi, potrebbe esporre il terapeuta a un errore clinico.
Un professionista del benessere psicologico ha il compito di cogliere ogni eventuale sfumatura nell’evoluzione della relazione terapeutica e fornire al paziente una lettura che dia significato a ciò che sta avvenendo, al fine di renderlo maggiormente consapevole delle dinamiche che agisce, pensa, sente.
In questi casi è necessario che il terapeuta cerchi di ipotizzare il senso che lo spostamento semantico dal lei al tu potrebbe avere per il paziente dentro quella relazione terapeutica, e se può avere significato anche al di fuori di quel contesto.
Sta per caso svalutando il terapeuta, insinuando che è poco esperto o che ripone poca fiducia in lui? Sta provando ad accorciare o annullare le distanze per sentirsi meno spaventato dalla relazione asimmetrica e collocarsi su un piano più amicale?
Attraverso una semplice trasformazione formale a livello linguistico, il paziente potrebbe - volontariamente o inconsapevolmente - operare una trasformazione simbolica del terapeuta. Se quest’ultimo non dovesse accorgersene, rischierebbe di colludere con tale trasformazione, impedendo al paziente di acquisire consapevolezza di ciò e, conseguentemente, di comprendere ed elaborare il senso di ciò che sta avvenendo lungo il percorso.
Letto in quest’ottica, l’utilizzo del Lei diventa uno strumento prezioso, una lente capace di permetterci di individuare se e in quale direzione si sta realizzando un cambiamento di rotta nella relazione terapeutica.
Può essere un campanello di allarme per il clinico affinché presti la giusta attenzione al fenomeno che sta osservando. Ma anche un movimento che se gestito clinicamente può rappresentare un key moment evolutivo per il paziente.
Internet e l’abbattimento delle distanze
Allestire un setting online per una terapia in videochiamata, implica necessariamente ripensare degli elementi che a lungo sono stati dati per scontati, dal momento che alcune variabili importanti nel setting, come tempo, spazio e corpo, sono diversamente implicate e percepite.
Nella psicoterapia online, paziente e terapeuta si incontrano in un “non-spazio”, ognuno nella propria dimora e al contempo su un’interfaccia, una vera e propria connessione che attiva fin da subito la necessità di empatia e alleanza: ognuno è già nello spazio dell’altro, non semplicemente a metà strada.
Per questo motivo, nel setting online, caratterizzato da una oggettiva distanza fisica, riferirsi all’altro utilizzando il Lei - pronome che modula la relazione interponendo tra gli interlocutori distanza (sociale, generazionale, in questo caso professionale) - potrebbe figurarsi nel qui e ora come un’ulteriore barriera, oltre a quella dell’assenza di corporeità.
Nella consulenza psicologica online, il Tu può contribuire a ridurre le distanze tra terapeuta e paziente, non soltanto quella fisica ma anche quella simbolica, talvolta facilitando il superamento di alcune resistenze iniziali.
Spesso nel setting online i pazienti riferiscono di trovarsi più a loro agio quando ci si rivolge a loro con il Tu, ma non necessariamente questa scelta implica collusione con il paziente: lo sarebbe se decidessimo di adottarlo con un consenso implicito, mentre in questo caso si tratta di una regola di setting esplicitata, concordata e significata. I principi cardine della psicoterapia restano pertanto conservati nel setting online, anche quando questo impone la necessità di rivalutare l’utilizzo del Lei come principale forma di cortesia.
Tra il tu e il lei quale forma è quindi più opportuno usare in terapia?
Questa domanda non avrebbe senso in altri paesi, come ad esempio in quelli anglofoni. Non in tutte le lingue infatti esiste un pronome di cortesia: in quella inglese si usa solo You, come succedeva anche nella lingua latina prima dell’avvento del Voi.
Pertanto al terapeuta, come a qualsiasi altro professionista, ci si rivolge con il Tu. L’utilizzo del pronome You, così come del resto del Tu all’epoca in cui si utilizzava esclusivamente quello, rende la conversazione e le regole di comunicazione decisamente più snelle e semplici, anche se nella lingua anglosassone esistono e vengono comunque utilizzate altre forme di cortesia.
Si incorrerebbe in una semplificazione se pensassimo linearmente che, attraverso il Tu, il paziente non dia valore all’intervento o alla figura del professionista. Applicare formalmente una regola, non necessariamente esime da errori o rende l’esperienza terapeutica più efficace.
Ci si può rivolgere con il Lei a un paziente e, al contempo, utilizzare altre espressioni verbali o atteggiamenti poco accoglienti e distanzianti, così come si può usare il Tu e riuscire a modulare la giusta distanza per una relazione terapeutica solida con la persona di fronte. Allo stesso tempo, il paziente può rivolgersi al terapeuta utilizzando il Lei e, ciononostante, agire distorsioni nei confronti della figura del terapeuta.
L'idea di fondo è che qualsiasi cosa si faccia in terapia, l'importante è fare scelte cliniche che abbiano senso in quelle specifiche relazione e situazione, perché non sempre è possibile applicare la stessa regola in tutti i casi e non è terapeutico per tutti allo stesso modo, pertanto è importante non cadere nell’errore manicheo di considerare il lei come pronome da prediligere nella terapia in presenza e il tu come forma più efficace per la terapia online.
Fin dai suoi esordi nel mondo della terapia a distanza, il Servizio di psicologia online Unobravo si è fatto promotore di un intervento clinico cucito su misura dell’utente, intessuto con i valori di eccellenza, affidabilità, accoglienza ed empatia che permeano la mission aziendale.
Ciò ha permesso all’equipe clinica di individuare dei parametri rispetto alla costruzione del setting online che fossero efficaci per accogliere un utente che conosce per la prima volta lo psicologo in videochiamata:
- la possibilità di entrare in studio “in punta di piedi” con un colloquio conoscitivo gratuito che sostituisce la “classica” telefonata e che permette di smussare le comprensibili diffidenze (per alcuni orientamenti terapeutici si parlerebbe di abbattimento delle resistenze);
- le prime indicazioni flessibili di setting, che prevedono un giusto balance tra comfort e aspetti clinici, necessari affinché si possa svolgere una terapia di qualità;
- prendere in considerazione l’eventualità di rivolgersi al paziente con il Tu.
Questi criteri, utili per l’impostazione del setting online, sono indicazioni che il servizio suggerisce agli psicologi che collaborano con la piattaforma, condividendo un know-how consolidato in anni di terapie online.
Ovviamente, nel rispetto dell’autonomia professionale del terapeuta e delle specificità individuali del paziente che il professionista incontra, ogni psicologo è libero di scegliere, insieme al paziente, se e quando utilizzare questo pronome per definirsi nella relazione, che è e deve restare terapeutica.
In questo setting, il focus di questa scelta clinica non è semplicemente l’utilizzo di un pronome, ma il trovare dei facilitatori per modulare la distanza relazionale laddove si frappone una oggettiva distanza fisica, mediata dalla presenza di uno schermo, la cui interfaccia avvicina e al contempo protegge.
Il senso del tu/lei, in questo caso, non è tanto definire la relazione come professionale, quanto di superare la distanza spaziale e creare più vicinanza con la persona oltre lo schermo, per permettere al paziente di sentirsi comodo nel raccontarsi a questo estraneo al quale non ha nemmeno stretto la mano.
La sfida dello psicologo è trovare il modo di creare una giusta distanza tra sé e il paziente, che è al contempo “di fronte” e “al di là”, oltre. Rivolgersi a lui usando il tu può essere un valido modo per modulare la distanza, non necessariamente l’unico, anche perché ci possono essere dei casi in cui potrebbe non essere indicato.
Il linguaggio, come la clinica, è qualcosa di vivo. Proprio come tutte le cose vive, anche il linguaggio e la clinica cambiano, mutano, si trasformano. Pensare che la talking cure del XXI secolo sia la stessa del XX, sarebbe smentire l’evoluzione di una disciplina, così come sarebbe negare che ogni decennio vede diffondersi e svilupparsi con maggiore intensità alcune psicopatologie rispetto ad altre.
Se oggi le riflessioni sullo schwa ci fanno interrogare riguardo l’inclusività del linguaggio, è altrettanto lecito interrogarsi e riflettere sulle nuovi implicazioni cliniche della forma pronominale da scegliere e utilizzare nella pratica clinica della società contemporanea, senza dare nulla per scontato.