In questo articolo racconterò la mia esperienza di conduzione di gruppo psicoanalitico (svolta all’interno di un’organizzazione di volontariato) in cui ho notato come ci siano delle difficoltà a far emergere questioni che abbiano uno spessore psicoanalitico e mi sono chiesta quale fosse la causa: forse le caratteristiche del gruppo? O forse la mia iniziale pregressa esperienza?
Cosa possiamo vedere o non vedere?
Durante la mia esperienza di conduzione di gruppo, guidata dalle teorie apprese all’università, ho trovato e posso dire anche non trovato ciò che mi aspettavo. Questo mi ha portato quindi a riflettere su come l’inesperienza (o l’“iperesperienza”) scolastica delle teorie psicoanalitiche, possa rendere ciechi i terapeuti e portarli a non vedere ciò che davvero si ha di fronte.
Il lavoro psicoanalitico è un'arte di cui ci si potrà impadronire in modo intuitivo e la crescita di conoscenza e l'intuizione da parte dell’analista dipendono in buona parte dal progredire nelle analisi personali e nelle supervisioni.
Credo sia importante costruire delle buone basi sia teoriche che esperienziali che conducano il terapeuta ad avere fiducia nel proprio metodo, poiché è adatto a far sì che le persone arrivino il più possibile vicino alla verità, intesa come:
- senso del limite
- sobrietà della ricerca mai conclusa
- tolleranza del dubbio.
Nel gruppo non si deve pensare al progresso, ma all'avanzamento dopo l'esperienza, il cui senso è dato anche dall’entrare in contatto con l'assente, il negativo, l'invisibile e il silenzio.
L’importanza dell’invisibile
La mia esperienza mi porta a sottolineare l'importanza dell'invisibile e del silenzio, poiché questi elementi sono sempre stati presenti nel gruppo, in cui appare una certa difficoltà a far emergere vissuti personali, soprattutto di dolore.
Il gruppo trova difficoltà a dare voce alle “idee senza nome”. Il dolore si vede, si sente, si percepisce ma non i traumi che rimangono celati dietro il visibile che, invece, viene portato come tema da discutere.
Nel gruppo si sente che ci sono queste difficoltà ma, essendo il gruppo poco propenso ad occuparsi dell’invisibile, allora esso ha poca possibilità di manifestarsi. Così i traumi non emergono e quindi il dolore rimane.
Perdere la memoria per rendere invisibile il dolore
Vorrei portare un esempio clinico di quanto detto finora: i membri del gruppo, trovando difficoltà a rendere visibile il dolore, hanno cercato di allontanarsi da esso, chiedendomi di non fare un incontro poiché presenti solo in due.
Analizzando quanto avvenuto, ho ipotizzato che saltare la seduta fosse stato un modo per evitare il contatto con il dolore, molto forte e angoscioso. Il forte dolore riguardava A. (uno dei membri del gruppo) che ha perso la memoria e nella sua vita aveva dovuto attraversare molti eventi dolorosi difficili da elaborare.
La perdita della memoria è stato un modo per dimenticare il dolore presente nella sua vita, per allontanarsi da esso, proprio come hanno fatto i membri del gruppo saltando l’incontro.
Il visibile è tutto ciò che è dicibile o descrivibile di una persona, di un gruppo. L'invisibile è l'esperienza dell'inespresso, lo sforzo di dare voce proprio a quelle idee senza nome attraverso strade a fondo cieco, prima di poter incontrare una forma per accoglierle e raccontarle.
L'invisibile è anche un passato, un fatto inconfessabile, un oggetto sepolto in ogni membro del gruppo. C'è sempre una censura collettiva per le storie invisibili, incomprensibili.
Condividere il dolore
Il gruppo che ho condotto è stato attraversato da molte sofferenze rimaste soprattutto nello scenario dell'invisibile. È comunque stato possibile parlare di questi vissuti angosciosi, di impotenza rispetto a quanto era avvenuto ad A., anche in sua presenza.
Questo ha portato il gruppo a condividere un dolore e a toccare un po’ di quell’invisibile che attraversa tutti noi per poi tornare però a ciò che è più tangibile, forse anche più rassicurante, piuttosto che perdersi nei meandri della memoria e della invisibilità. Nel gruppo si deve tentare di cogliere le connessioni non visibili, come afferma Freud:
“la verità scientifica dei fatti vissuti viene sempre a galla dall'universo dell'errore, della finzione, dai lapsus”
Nel momento in cui, in seduta, l'occhio non vede, l'orecchio non sente, il tatto non percepisce pressione, dobbiamo volgere la nostra attenzione a quella barcollante oscurità su cui dobbiamo rimanere sospesi e oscillanti tra un eccesso di dolore, parole, silenzio e un difetto degli stessi per intuire, con una parte dei pazienti, ciò che non si vede: le emozioni, i legami, gli affetti, il non detto.