Il film C’è ancora domani è uscito da poco nelle sale italiane e ha riscosso già un grande successo di pubblico. L’opera segna l’esordio alla regia di Paola Cortellesi, che sceglie di raccontare la storia di una donna, Delia, ambientandola nella Roma del secondo dopoguerra.
Unobravo è andato al cinema per vederlo e dare una lettura psicologica della storia di Delia, che sembra ancora attualissima.
Attenzione: l’articolo contiene spoiler.
Immagine: copyright Vision Distribution
Una brava donna di casa
Delia è donna, moglie e madre; si occupa della casa, dei figli, della famiglia, del suocero malato che vive in casa con loro, svolge tanti lavori diversi per portare a casa qualche soldo in più e far fronte alle necessità quotidiane.
L’Italia del dopoguerra è distrutta, la povertà incalza. A Roma, come molte altre città, i militari alleati presidiano le strade. Le differenze sociali sono molto forti, tanto da creare una profonda incomunicabilità tra i diversi ceti della popolazione.
Il ruolo della donna è assoggettato al sistema patriarcale: deve essere una buona moglie, una brava madre, deve “stare al suo posto” e stare zitta. Non può pretendere di studiare e se va a lavorare, i suoi guadagni appartengono all’uomo di casa.
Comunque non sono uguali a quelli di un uomo, anche se quest’ultimo ha competenze minori. Le disuguaglianze di genere sono il fondamento della società del tempo.
“Ha il difetto che risponde”
Delia rappresenta la donna del dopoguerra. La vediamo uscire di casa la mattina dopo aver preparato la colazione per tutti, aver assistito il suocero, aver preso la consueta razione di botte dal marito Ivano, indispettito per qualcosa, e uscire da casa per svolgere i suoi tre diversi lavori come se niente fosse.
Delia è una donna che subisce, praticamente ogni giorno, maltrattamenti e violenza da parte di Ivano che alle percosse, aggiunge anche la costante tensione della violenza psicologica fatta di sguardi severi, minacciosi, che promettono botte e schiaffi.
“Manco la serva sai fare”, è una delle tante frasi pronunciate da Ivano che, costantemente, umilia la moglie non solo in privato (momento in cui aggiunge schiaffi e violenze), ma anche davanti ai figli, ai vicini, agli ospiti del pranzo della domenica.
Anche Ivano, infatti, è il ritratto fedele di un tipo di uomo del tempo: cresciuto e assoggettato alle regole patriarcali, percepisce Delia come meno di niente.
Il padre (Ottorino) gli ricorda che, tutto sommato, Delia è una brava ragazza, ma ha il difetto di non stare mai zitta. Le botte, dunque, Delia se le va proprio a cercare. Ottorino prega il figlio di non picchiarla con troppa frequenza così almeno, durante il suo riposino pomeridiano, non la sentirà piangere nell’altra stanza e potrà dormire tranquillamente.
Per assicurarsi che Delia resti al suo posto, meglio esercitare una costante violenza psicologica nella coppia, e usare le botte un po' meno, ma più forti.
La violenza domestica è la normalità
Lungo il film Delia incontra altre donne: tutte, in qualche modo, subiscono una qualche forma di violenza solo per essere donne, e nascondono la vergogna e la rabbia di essere vittime.
A tutte, tranne nel raro caso di Marisa (amica di Delia) e della donna proprietaria della merceria a cui Delia fornisce piccole riparazioni sartoriali, viene intimato di stare al proprio posto e non pensare nemmeno di esprimere un’opinione su questo o quell’argomento.
La violenza domestica subita da Delia è fatta di abusi, minacce, umiliazioni, botte. Quando arriva il momento, Ivano chiude le finestre, le vicine di casa in cortile tacciono, consapevoli di ciò che accadrà tra quelle mura, e Delia si prepara a ricevere la sua razione di pugni e schiaffi.
Ne ha subiti e ne subisce talmente tanti da mettere in atto una serie di meccanismi psicologici di difesa che si innescano in una donna vittima di violenza e che le permettono di sopravvivere a ogni giornata. In una delle prime scene in cui viene picchiata dal marito, per esempio, vediamo Delia e Ivano muoversi come in una danza: è in atto il meccanismo della dissociazione.
Si tratta di una difesa psicologica che permette alla vittima di prendere le distanze dalla terribile realtà che sperimenta ed è così che probabilmente si sente anche lo spettatore, un po’ dentro la scena di violenza e un po’ trascinato fuori, come se stesse accadendo qualcos’altro.
Delia sembra aver accettato passivamente, e da molto tempo, la sua condizione di donna vittima di violenza. Aggressività e violenza fanno parte di Ivano, che è sempre nervoso “perché ha fatto due guerre”, si dice Delia razionalizzando e riproponendo la stessa distorsione cognitiva del marito.
Lei lo giustifica, accetta che il marito le impedisca di uscire di casa e vedere un’amica, di mettere il rossetto e sedersi a tavola per mangiare insieme al resto della famiglia. Teme le sue reazioni e fa di tutto per non farlo arrabbiare.
E ogni giorno sente le vicine e l’amica Marisa dirle che dovrebbe ribellarsi, fare in modo che Ivano la smetta, fuggire. Del resto, per chi parla con una vittima di violenza, può essere difficile capire qual è il modo più efficace di dialogare con lei.
Mossa dalle migliori intenzioni, Marisa, come le altre donne, non accoglie però la sofferenza di Delia senza giudizio, ma più probabilmente la amplifica, esortandola continuamente a reagire e innescando un meccanismo di giustificazione e minimizzazione della violenza da parte di Delia stessa.
La violenza domestica e la violenza assistita
La pellicola rappresenta bene le diverse fasi di quello che la psicologa Leonore Walker ha definito il ciclo o la spirale della violenza: accumulo di tensione, esplosione della violenza e pentimento. In alcune scene possiamo vedere Ivano che, dopo averla aggredita fisicamente, si riavvicina a Delia e si giustifica con lei cercando di riconciliarsi.
Ma questa spirale non coinvolge solo Delia. Tutta la famiglia, ciascuno a suo modo, ne è vittima. La figlia Marcella, anche lei donna e, per questo, destinata a non studiare e trovare marito (possibilmente tra i giovani facoltosi che possono tirarla fuori dalla povertà) assiste alle umiliazioni della madre e si arrabbia con lei, rimproverandola di non reagire.
Anche quando Delia, per proteggerla, prende le botte di Ivano al posto suo.
I due figli piccoli, maschi e quindi autorizzati ad andare a scuola, sono molto vivaci e maneschi, e hanno già imparato che la violenza è il canale giusto (nonché l’unico) per comunicare con una donna, anche se si tratta della propria madre. Anche loro sono vittime della violenza assistita.
Tutti, in famiglia, pronunciano spesso frasi come “Se non la smetti te meno”.
Il mondo di Delia
Lungo il tragitto che compie ogni giorno, sempre lo stesso, Delia stringe amicizia con un militare statunitense, passa al mercato dall’amica Marisa, l’unica con cui si confida e che, per proteggerla, la sprona a fuggire e trovare un altro uomo.
Tornando verso casa incontra spesso Nino, un meccanico, probabilmente il suo unico e vero amore. Nino a breve lascerà la povertà di Roma, per cercare fortuna in Lombardia, e vuole che Delia vada con lui. Partirà di domenica. Quell’altro uomo di cui parla Marisa, forse c’è davvero, e potrebbe salvare Delia.
Tornata a casa, la protagonista si muove furtiva in camera per nascondere parte dei soldi che lei stessa ha guadagnato, per non darli al marito. Nutre la sua impotenza appresa con un atteggiamento rassegnato. O forse, questo è solo ciò che appare.
Nella grande solitudine che la circonda, infatti, Delia sembra custodire ancora un animo forte, uno spirito che non vuole dare in pasto del tutto alle botte di Ivano.
Spezzare l’eredità di violenza
Marcella, la figlia di Delia, si è fidanzata. Ma anche il giovane promesso sposo, mostra subito di che pasta è fatto. Tra un bacio rubato e una carezza, promette (o forse dovremmo dire “minaccia”) a Marcella che, una volta sposati, lei non dovrà più lavorare. Dovrà evitare di truccarsi, e sarà solo sua.
Marcella sembra non accorgersi che qualcosa non va nelle parole del fidanzato. D’altra parte, i messaggi che riceve non sono diversi da ciò che ha sempre vissuto in famiglia. In quello stesso contesto potrebbe avere imparato che è normale che un uomo parli così alla sua compagna. Oppure che la violenza è qualcosa che può subire solo una donna debole, così come lei vede probabilmente sua madre.
La storia, una generazione più avanti, è destinata a ripetersi come effetto della trasmissione intergenerazionale della violenza. Le figlie che assistono ad atti di violenza familiare o che subiscono questo trauma hanno infatti maggiori probabilità, imparando a normalizzare e tollerare la violenza, di esserne vittime in futuro.
Ecco che qualcosa allora scatta nella mente di Delia. Come può lei, da sola, fermare questo meccanismo di violenza? Se per lei è troppo tardi, come liberare la figlia dal suo stesso, tragico destino?
Una lettera importante, un appuntamento con la Storia
Delia ha architettato tutto. Con pazienza, mette da parte ancora qualche soldo, stringendo in mano una lettera di cui Ivano non sa nulla. Domenica fuggirà da lui, con la scusa di andare al lavoro per un’urgenza, e compirà il suo atto di ribellione contro la violenza subita da lei, come da tante altre.
Ma no, Delia non raggiunge Nino: la sua salvezza non viene dalla fuga con un altro uomo.
Quella lettera, come lei, l’hanno ricevuta in tante in quel 1946 destinato a cambiare la Storia d’Italia. Quei giorni segnano una grande conquista per tutte le donne. Possono già votare e, ora, possono essere anche elette. Il diritto di voto e quello di diventare parte attiva nella storia politica, diventa sinonimo di autodeterminazione, ribellione, conquista.
Delia prepara tutto. Lascia i soldi messi da parte con tanto sacrificio alla figlia, con un biglietto che le dice “Con questi ci vai a scuola”. Una donna vittima di violenza non sempre riesce a prendersi cura dei figli, che potrebbero finire per allearsi con la figura paterna, percepita come “più forte”.
La potenza di questo e altri gesti di Delia sta proprio nel riuscire, nonostante la sua condizione di vittima, a occuparsi dei suoi figli, facendo sentire loro che c’è qualcuno in grado di proteggerli e prendersene cura. Si tratta di un fattore molto importante che contribuirà alla loro resilienza.
Delia esce di casa e corre. Corre verso il sogno di riscatto. Sa che c’è in ballo molto di più del salvare se stessa: contribuire a nutrire una nuova coscienza collettiva, fare la propria parte per un bene più alto, comune, che possa dare alle donne future ciò che lei non ha mai avuto il diritto di avere.
Davanti all’urna, Delia e le altre donne che l’hanno accompagnata nel film, imbucano la loro scheda elettorale e, senza bisogno di parlare, affermano con lo sguardo che quello che stanno vivendo è un momento epocale. Che la loro condizione cambierà, con la lotta attiva, seppur silente, di tutte loro.
Il presente e il futuro
Il film C’è ancora domani tratta di temi tragici e tuttavia fondamentali per comprendere la Storia e la nostra eredità collettiva, nonché il nostro presente. ISTAT ci racconta che, dal 2006 al 2014:
“Le donne subiscono minacce (12,3%), sono spintonate o strattonate (11,5%), sono oggetto di schiaffi, calci, pugni e morsi (7,3%). Altre volte sono colpite con oggetti che possono fare male (6,1%). Meno frequenti le forme più gravi come il tentato strangolamento, l’ustione, il soffocamento e la minaccia o l’uso di armi. Tra le donne che hanno subìto violenze sessuali, le più diffuse sono le molestie fisiche, cioè l’essere toccate o abbracciate o baciate contro la propria volontà (15,6%), i rapporti indesiderati vissuti come violenze (4,7%), gli stupri (3%) e i tentati stupri (3,5%).”
E di recente non va meglio. Il Rapporto sulla violenza di Genere del Ministero dell’Interno traccia un quadro inquietante in relazione al femminicidio:
“relativamente al periodo 1 gennaio – 12 novembre 2023 sono stati registrati 285 omicidi, con 102 vittime donne, di cui 82 uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, 53 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner.”
Come accade nel film, ancora oggi gli uomini sono vittime del sistema patriarcale, in cui stereotipi e ruoli di genere sono cristallizzati nella mascolinità tossica e nel machismo. Lo sono le donne, che non sempre hanno la possibilità economica o emotiva di uscire fuori da queste dinamiche di violenza.
Ancora oggi, come racconta il film, la collettività può fare molto. Ricordarsi del coraggio delle donne che hanno lottato per conquistare alcuni diritti, può essere una spinta per alimentare il nostro, di coraggio, e farci seguire le loro orme.
Tutti, uomini e donne, possiamo fare molto affinché la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne diventi, da urgenza e battaglia, giornata di festa per aver raggiunto degli importanti traguardi per l'intera società. Questo può significare, per esempio, iniziare a esercitare il proprio diritto:
- a esprimere un voto libero
- a dare o meno il consenso sessuale
- a contrastare comportamenti sessisti di qualsiasi natura, dal catcalling alla violenza sessuale.
La violenza come trauma psicologico
Subire violenza, perpetrarla o assistervi può essere una vera e propria esperienza traumatica, le cui ripercussioni sul benessere della persona possono essere significative.
Una delle maggiori difficoltà che affronta chi subisce violenza, legata al vedere costantemente trascurati, ignorati e svalutati i propri diritti e bisogni, è quella di non riuscire a prendersi cura di sé.
Un modo per iniziare a farlo può essere chiedere l’aiuto di un professionista della salute mentale. Ogni seduta di un percorso psicologico svolto con uno psicologo e psicoterapeuta è un luogo sicuro e di accoglienza, privo di qualsiasi giudizio e può essere il punto di partenza per un cambiamento radicale in direzione del self empowerment della persona che lo svolge.
Se sei una vittima di violenza o conosci qualcuna che lo è, ricorda che il numero Antiviolenza e stalking 1522 è attivo 24 ore su 24 e che puoi rivolgerti inoltre alle Forze dell’Ordine e agli sportelli antiviolenza presenti in tutto il territorio nazionale.