Lavoro
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Il burnout dello psicologo e dello psicoterapeuta

Il burnout dello psicologo e dello psicoterapeuta
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Sabrina Consumati
Redazione
Psicoterapeuta ad orientamento Cognitivo-Comportamentale
Unobravo
Pubblicato il
21.11.2023

Il termine “burn-out” ha origine anglosassone e significa letteralmente “bruciato”, “surriscaldato”, “scoppiato”: la traduzione può già dare un’idea dello stato psicofisico che caratterizza questo fenomeno.


L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha riconosciuto a tutti gli effetti il burnout come un quadro clinico specifico, una “sindrome legata al lavoro”, inserendo il corrispettivo codice QD85 all’interno dell’undicesima versione aggiornata della Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD-11).


Il burnout viene descritto come una “sindrome derivante dallo stress cronico sul posto di lavoro”. Lo stress è un termine che Hans Selye nel 1936 utilizza per la prima volta per definire la “risposta aspecifica dell’organismo ad ogni richiesta effettuata su di esso”. 


In un secondo momento, Salye differenzia il distress e l’eustress. Mentre l’eustress indica l’effetto positivo e adattivo dello stress e implica una revitalizzazione dell’organismo in vista di uno stimolo da affrontare, il distress ne rappresenta l’effetto negativo e disadattivo della reazione dell’individuo, il senso di sovraccarico e diminuzione delle energie disponibili.


In questo quadro, il burnout si configura come conseguenza di uno stress cronico, cioè un’esposizione prolungata a fattori di distress.


I sintomi del burnout

L’OMS afferma che il burnout è una sindrome che riguarda in modo specifico e circoscritto lo stress relativo al contesto professionale e non altri ambiti di vita dell’individuo.


È stato osservato che questa sindrome è molto frequente nelle professioni a elevata implicazione relazionale e coinvolgimento emotivo. Le figure sanitarie sono generalmente le più colpite: medici, infermieri, psicologi, come anche assistenti sociali o insegnanti.


Essendo una sindrome legata all’esposizione prolungata a fattori di stress sul posto di lavoro, il burnout può tuttavia manifestarsi anche in persone che non svolgono professioni sanitarie, ma che accusano costante distress, fatica, isolamento e frustrazione.


Secondo la classificazione ufficiale dell’ICD-11, la “sindrome del burn-out” è caratterizzata da:


  • sentimenti di esaurimento o esaurimento energico
  • aumento della distanza mentale dal proprio lavoro, sentimenti di negativismo o cinismo relativi al proprio lavoro
  • ridotta efficacia professionale.


Lo stress protratto può determinare uno stato di disagio psicofisico ed emotivo che può evolvere in un malessere generalizzato e vissuti di demotivazione, delusione e impotenza fino ad un distaccato disinteresse che si concretizza nella compromissione del funzionamento generale della persona e che si riversa non solo sul piano lavorativo, ma anche personale.


Scaramagli afferma che la protratta esposizione allo stress provoca sintomi classificabili in 3 dimensioni, da cui è possibile derivare diversi sintomi associabili alla sindrome del burnout:


  • dimensione cognitivo/emotiva: diminuzione del senso dell’umorismo, difficoltà a concentrarsi, difficoltà nel prendere decisioni, bisogno di evasione, distacco emotivo, trascuratezza delle relazioni sociali, spazio mentale occupato prevalentemente dagli impegni di lavoro e, al contempo, demotivazione e senso di colpa
  • dimensione comportamentale: irritabilità, fame emotiva o perdita di appetito, possibile aumento dell’uso di tabacco, alcool e/o sostanze, mancanza di iniziativa, assenteismo, tendenza a criticare gli altri, procrastinazione, difficoltà a portare a termine gli impegni
  • dimensione fisica: emicrania, tensione al collo e alle spalle, mal di schiena, sintomi respiratori, insonnia, bruxismo, disturbi intestinali, disturbi sessuali, spossatezza.


Maslach e Leiter (2000) hanno descritto le principali caratteristiche psicologiche del burnout focalizzando l’attenzione sul progressivo deterioramento dell’impegno nei confronti del lavoro. Gli studiosi suggeriscono come il cambiamento di motivazione della persona nei confronti del proprio impiego rappresenti un importante indice della propria disposizione interiore rispetto al lavoro.


Questi autori hanno dedicato diversi anni di studio a questo fenomeno, tanto che già nel 1981 è stato sviluppato un test psicodiagnostico specifico per questo quadro clinico, l’MBI (Maslach Burnout Inventory), un questionario a 22 items e scala Likert a 6 livelli volto a valutare il livello di burn-out di un individuo.


Le dimensioni indagate da Maslach sono i livelli di:


  • esaurimento emotivo
  • depersonalizzazione
  • ridotta realizzazione personale


 fattori che vediamo ripresi anche nell’ICD-11.


Fattori predisponenti del terapeuta al burnout


Può essere funzionale individuare delle “situazioni tipo” che potrebbero portare il terapeuta a sperimentare situazioni di stress che, se non riconosciuto e non trattato, può frammentare la salute mentale del clinico (Grandori M., State of mind).


Il paziente mette il suo dolore tra le mani del terapeuta


Gestire pazienti che hanno alle spalle storie molto difficili, dolorose, entrare in contatto con aspetti traumatici di esperienze che spesso i pazienti per la prima volta riescono a tirare fuori, è per i terapeuti una grande assunzione di responsabilità.


I terapeuti che non hanno mai vissuto lo stesso evento possono sentirsi sconvolti e possono manifestare una forma di trauma vicario, sintomi traumatici secondari sotto forma di:


  • incubi
  • senso di colpa
  • impotenza
  • ottundimento emotivo.


Può crearsi un circolo vizioso in cui più il terapeuta diventa sintomatico, disadattivo e inefficace, più sente di dover fare meglio e iper-investe nel lavoro nel tentativo di salvare il paziente.


Quando si attiva questo circolo, il terapeuta può non essere consapevole delle sue difficoltà, oppure può tendere a minimizzare il problema, evitando il confronto con i colleghi e le supervisioni e accumulando stress, blocchi ruminativi, disagio, senso di impotenza.


Il coraggio e la saggezza


Il terapeuta può sviluppare un’autentica reazione di controtransfert ai contenuti del paziente per cui, ciò che il paziente porta in seduta, risveglia sensazioni e ricordi intrusivi di esperienze che appartengono alla vulnerabilità storica e a possibili traumi psicologici del terapeuta.


Gilbert (2023) a questo proposito afferma che il desiderio autentico di aiutare i pazienti è comprensibile ed è il motore del lavoro terapeutico, ma che è necessario anche tirare fuori “il coraggio e la saggezza” di capire come farlo al meglio per quel singolo paziente dinanzi al terapeuta.


Questa saggezza può guidare il clinico a comprendere e prendersi cura non solo del paziente ma anche di sè, scegliendo con attenzione “quali e ‘di quanti’ pazienti possiamo farci carico tenendo presente sia le nostre risorse, sia le nostre umane vulnerabilità.” (Gilbert, 2023).


Puntare sulla “quantità” può essere una scelta rischiosa. Quando un terapeuta prende in carico pazienti che hanno aspetti traumatici a lui familiari o quando non bada alla “quantità” di lavoro, in particolare in una professione come la nostra in cui non c’è solo una parte procedurale ma anche una intensa carica emotivo/affettiva, la conseguenza è che può risentirne la “qualità” del lavoro terapeutico.


Se c’è solo il lavoro


Lo stress può essere auto-indotto quando il lavoro rappresenta la maggiore, se non unica, area in cui la persona investe le proprie energie, a discapito delle altre (famiglia, socialità, sport, intrattenimento).


In questa predisposizione soggettiva è sicuramente importante il lavoro su se stessi. Seguire i pazienti, ascoltare le loro storie, farsi carico dei momenti difficili, essere ascoltatore di qualcosa che non avevano mai detto a nessun altro, nonché il sentire un pezzetto di se stessi in ognuno di loro è solo una parte di quell’intensa carica affettiva che accompagna il lavoro del terarapeuta, il quale può trovarsi immerso in questo “calderone di emozioni che ci pone sfide importanti” (Muran & Eubanks, 2021).


Vergogna, imbarazzo, rabbia, dispiacere sono solo alcune delle reazioni automatiche e naturali che possono accompagnare il terapeuta durante il suo intenso lavoro: accumulare frustrazioni, timori, dolore per i pazienti può predisporre al distacco emotivo.


Le rotture dell'alleanza terapeutica come predittore di burnout del terapeuta


L’alleanza terapeutica è per definizione una relazione co-costruita da clinico e paziente. Gilbert (2023) afferma che la relazione terapeutica è una relazione dinamica reciproca e mutevole, in cui il clinico è chiamato a svolgere diverse funzioni, sia nella costruzione dell’alleanza partecipando in prima persona, sia nel ruolo terapeutico connotato dalle specificità del proprio approccio.


Molte ricerche dimostrano come la relazione terapeutica sia il primo fattore di successo del percorso terapeutico, a prescindere dal tipo di approccio utilizzato dal terapeuta. Sebbene quindi esistano variazioni nel modo in cui viene costruita e utilizzata, trasversalmente a tutti gli approcci, la rilevanza della qualità dell’alleanza terapeutica rappresenta un aspetto fondamentale del lavoro del terapeuta.


Muran e Eukbans (2021) sottolineano l’importanza dell’aspetto “umano” della relazione terapeutica sollecitando un approccio fondato su una relazione umanamente paritaria, in cui il terapeuta può utilizzare il “noi” per aprire riflessioni sulla comprensibilità e condivisibilità dell’esperienza del paziente.


Questo dà la possibilità di vedere paziente e terapeuta protagonisti di un processo in cui si pongono l’uno di fianco all’altro, mettendo in evidenza la relazione terapeutica come aspetto centrale in vista del cambiamento.


Il paziente, che si sente accolto e compreso, con più facilità può sperimentare quel senso di sicurezza, o base sicura, da cui poter partire per esplorare parti di sé o esperienze di sé dolorose e a cui tornare per “ritrovarsi”.


Da qui ne deriva l’importanza della capacità del clinico di stare nel qui e ora, radicato e in contatto con il proprio sé integrato e allo stesso tempo con l’intenzione di essere con e per il paziente (Gilbert, 2023).


Quando il terapeuta, in qualità di essere umano predisposto ad attraversare momenti di impasse, si sente sotto pressione, è naturalmente spinto a una maggiore ristrettezza cognitiva, un ragionamento basato più sulle euristiche e sul bisogno di offrire soluzioni e sfuggire da emozioni spiacevoli.


Molto probabilmente, è capitato a tutti i terapeuti di avere difficoltà a gestire la rabbia dei pazienti, la loro compiacenza o il loro silenzio. Muran e Eukbans (2021) sottolineano come la pressione accusata dal terapeuta sia un fattore che può compromettere le capacità di attenzione del terapeuta stesso.


La rottura dell’alleanza terapeutica e il fenomeno di drop-out possono essere importanti indicatori dello stato psicologico del terapeuta. Bordin (1979), nel descrivere l’alleanza terapeutica, propone di prestare attenzione a tre processi:


  • la creazione della relazione
  • gli obiettivi concordati della terapia
  • i compiti con cui tali obiettivi saranno raggiunti.


La rottura dell’alleanza terapeutica può generalmente essere ricondotta a uno di questi processi e, essendo la relazione terapeutica un’alleanza co-costruita, è possibile osservare se il fenomeno di rottura dell’alleanza potrebbe essere riconducibile alla sintomatologica di stress accumulato del terapeuta sotto pressione.

Fattori di mantenimento del burnout

Possono essere individuati diversi fattori che contribuiscono al mantenimento dello stato di stress. Tra questi possiamo trovare:


  • tendenza all’autocritica: quando il terapeuta sperimenta un senso di disagio e constatare tale disagio innesca un senso di auto-accusa, per cui il disagio iniziale molto probabilmente non si esaurirà, ma resterà tale o aumenterà
  • tendenza a negare il “problema”: spesso il meccanismo cognitivo alla base della negazione è la minimizzazione, quindi a un distanziarsi dal problema
  • tendenza a provare vergogna per le proprie difficoltà: la vergogna potrebbe ostacolare lo “svelamento” delle proprie fragilità. In particolare, a volte il terapeuta può avere resistenze nel manifestare una difficoltà per timore di quella che potrebbe essere la sua immagine nella mente dell’altro.


L’autocritica e la vergogna possono divenire importanti fattori di mantenimento della sintomatologia legata allo stress, impedendo al terapeuta di accedere ai propri reali bisogni e a condividere quello che sta accadendo con altri.


Quando il terapeuta avverte stress per il suo lavoro e, quando questo si riversa nello stare in seduta con e per il paziente, tale situazione può generare senso di colpa.


Il “danno” in questo caso potrebbe essere il protrarsi della sofferenza del paziente, constatazione che potrebbe attivare un senso di inefficacia e vergogna o, in alcuni casi, anche un senso di impotenza che si manifesta con rabbia, arrivando a valutare l’impasse come un fattore derivante dal poco impegno del paziente.


Importante è dare attenzione alle proprie disposizioni interiori: esattamente come il terapeuta lo insegna ai pazienti, è importante prendersi cura allo stesso modo anche di se stessi.


La prevenzione del burnout nel terapeuta


Date queste premesse, e dato che nel  lavoro di terapeuti inevitabilmente ci si espone a relazioni complesse ed emotivamente impegnative, conoscere e riconoscere  il burnout può essere un fattore importante per la prevenzione di questa condizione.


Quando per vari motivi il lavoro inizia a essere difficile da gestire, quando il terapeuta si sente troppo stanco e per provare sollievo il riposo non basta, è fondamentale prendere del tempo per osservare da vicino cosa sta succedendo.


La prevenzione del burnout può beneficiare del monitoraggio della propria attivazione durante le sedute. Quando l’arousal cambia, il terapeuta può fermarsi un attimo e chiedersi se quello che sta provando è stato attivato da qualcosa di esterno alla seduta, come ad esempio uno stato emotivo di sottofondo del terapeuta causata da una situazione spiacevole e personale, oppure se l’attivazione del terapeuta è scaturita da qualcosa che ha detto o fatto il paziente.


Riuscire a cogliere questa differenza in seduta è fondamentale, perché ci aiuta a capire se accogliere e mettere da parte uno stato spiacevole ed esterno alla seduta per dare spazio al paziente e trattare il pensiero intrusivo in sede diversa come una terapia individuale o una supervisione o, se nella relazione con il paziente, sta succedendo qualcosa che è importante osservare con occhio clinico, ad esempio attraverso l’aiuto e il confronto con i colleghi, le supervisioni e i gruppi di intervisione.


Un importante strumento terapeutico può essere la metacomunicazione, una riflessione condivisa di uno scambio comunicativo funzionale a mettere in evidenza e integrare l’intenzionalità del messaggio e l’impatto di questo sul ricevente.


Esercizi di prevenzione per il burnout dello psicologo e psicoterapeuta

Rendere esplicite le intenzioni e le reazioni è un momento terapeutico che può chiarire malintesi e rendere più trasparente e salda la relazione terapeutica.


Muran e Eubanks individuano nelle tecniche di regolazione emotiva un importante fattore di resilienza nei momenti di pressione e stress, come gli esercizi di respirazione e radicamento e la mindfulness, ovvero quelle tecniche che aiutano a stare sul momento presente.


La colleganza (ad esempio, come accade in Unobravo con il proprio Team Leader clinico di riferimento) del gruppo può divenire una base sicura a cui tornare e in cui:


  • disattivare il sistema motivazionale agonistico improntato sulla competitività che può indurre vergogna
  • entrare nel più caldo sistema cooperativo e sistema di cura che stimolano l’esplorazione, il senso di connessione e aiuto reciproco nel perseguire un obiettivo condiviso.


Il ritrovarsi nell’esperienza di un collega, inteso proprio come “ritrovare se stessi nell’altro”, può essere un potente antidoto alla sindrome del burnout, una sorta di “estintore emotivo” che di volta in volta può aiutare a guardare più da vicino ciò che sta succedendo e scegliere consapevolmente come muoversi, agendo preventivamente in virtù del proprio benessere mentale e nel rispetto di se stessi.


In questo senso, la possibilità di prendere parte a riunioni di intervisione nel proprio lavoro rappresenta una occasione molto preziosa:


  • per aggiungere elementi strettamente funzionali al trattamento del caso clinico
  • per confrontarsi con le esperienze dei colleghi
  • per normalizzare quelle che sono le difficoltà che tutti possono trovarsi ad affrontare nel corso del proprio lavoro. 


Accogliendo quelle che possono essere umane vulnerabilità, il terapeuta può provare a considerarle come fonti di conoscenza di sé e come una via per entrare in contatto in modo ancora più profondo con i pazienti.


Infine, abbiamo visto come le esperienze riportate dai pazienti possono essere la scintilla di qualcosa che si accende nel terapeuta. Fare terapia personale può essere un valido supporto per entrare in contatto con i contenuti che si attivano o si sono attivati durante il lavoro e che potrebbero essere connessi a una propria e più profonda vulnerabilità.


Dare spazio a questo può prevenire il prolungarsi di un disagio emotivo a cui è importante dare voce.


BIBLIOGRAFIA

  • Bordin E. S. (1979), The generalizability of the psychoanalytic concept of the working alliance. Psychotherapy: Theory, Research & Practice, 16(3), 252-260
  • Gilbert P., Simos G. (2023), Compassion Focused Theraphy. Guida pratica all’applicazione delle tecniche, Erikson, Trento
  • Maslach C., Leiter M.P. (2000), Burnout e organizzazione: Modificare i fattori strutturati della motivazione al lavoro, Erickson, Trento
  • Muran J.C., Eubanks C.F. (2021), Il terapeuta sotto pressione. Riparare le rotture dell’alleanza terapeutica, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Questo è un contenuto divulgativo e non sostituisce la diagnosi di un professionista. Articolo revisionato dalla nostra redazione clinica

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