Ricordi smarriti: l’amnesia infantile

Ricordi smarriti: l’amnesia infantile
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Alessandro De Vecchis
Redazione
Psicoterapeuta ad orientamento Cognitivo-Interpersonale
Unobravo
Articolo revisionato dalla nostra redazione clinica
Pubblicato il
7.2.2020
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Se da adulti ci viene chiesto qual è il nostro primo ricordo è probabile che non riusciamo a risalire ad uno che preceda i cinque o sei anni. E delle nostre esperienze nei primi tre o quattro anni di vita che ne è stato? A volte si tratta di sensazioni e immagini frammentate che si vanno perdendo quando compiamo sette-otto anni. Questo fenomeno è noto ormai come “amnesia infantile” e le cause sono ancora misteriose.

Il termine “amnesia infantile” fu coniato da Freud agli inizi del ‘900 per descrivere quel fenomeno dato dalla comune difficoltà degli adulti di ricordare episodi autobiografici senza l’aiuto di altri. Per Freud non si trattava di una vera amnesia, quanto piuttosto della rimozione nell'inconscio di certi ricordi o eventi che causano un trauma e si verificano nello sviluppo psicosessuale di ogni bambino. Questa spiegazione nel corso degli anni è stata accantonata e gli studi nel campo delle neuroscienze hanno provato a trovare nuove motivazioni a questo fenomeno.


L’importanza del linguaggio

Il periodo che va dai due ai quattro anni è l’età in cui si sviluppa il linguaggio: i bambini imparano un numero sempre crescente di parole e iniziano a costruire brevi frasi. Questo permette loro di accedere verbalmente ai ricordi che prima venivano richiamati attraverso immagini, storie o sentimenti: ciò potrebbe modificare il recupero di memorie di natura non verbale.

A questo proposito, uno studio condotto dalle psicologhe Gabrielle Simcock e Harlene Hayne, ha scoperto che i bambini dai due ai tre anni ricordavano più del doppio dei dettagli di un’esperienza se dovevano descriverle in modo non verbale, ad esempio indicando fotografie o ricopiando un comportamento.

Inoltre, se dovevano richiamare un ricordo del passato a distanza di un anno, usavano solo parole che già conoscevano al momento dell’episodio. L’uso della parola aiuta una costruzione più precisa del ricordo attraverso la narrazione, agevolando così la memorizzazione.

Anita JankovicI - Unsplash

L’effetto della “potatura”

l’infanzia è caratterizzata da un’intensa attività neuronale: tra queste c’è l’apprendimento del linguaggio. Nei primi anni di vita il numero di connessioni tra le cellule nervose aumenta in modo considerevole, in modo che il bambino apprenda sempre nuovi compiti, mentre crescendo si ha una “potatura” che lascia spazio al nuovo.

In particolare è stato dimostrato che, dall’infanzia alla giovinezza, le aree del cervello deputate alla memoria autobiografica subiscono intense modificazioni. Di conseguenza questa costante crescita e riorganizzazione neuronale rende difficile registrare le informazioni in modo stabile e successivamente ricordarle.


I ricordi non si perdono

Uno studio di alcuni ricercatori dell’Università di Toronto sui topi adulti ha rilevato come, nel processo di neurogenesi, le nuove cellule non vanno a sostituire le vecchie, bensì si integrano nei circuiti già esistenti. Questo potrebbe indicare che i ricordi non sono smarriti o perduti, ma vengono catturati in una forma non riconoscibile.

Seguendo il filone delle neuroscienze, molte teorie riconoscono come causa dell’amnesia infantile l’ippocampo, una struttura molto preziosa del cervello che contribuisce alla memoria e custodisce i ricordi. Questa zona nei bambini piccoli non si è ancora sufficientemente formata, spiegando così “l’assenza” dei ricordi.

myles-tan-WNAO036c6FM - Unsplash

Il ruolo della cultura

Secondo una prospettiva socioculturale, un ruolo importante che aiuta l’emergere del ricordo e l’accessibilità delle memorie infantili è dato da quanto la cultura di un determinato gruppo enfatizzi l’importanza del passato personale. In uno studio neozelandese, le ricercatrici MacDonald, Uesiliana ed Hayne, scoprirono che i Maori riuscivano a richiamare ricordi risalenti ai due anni e mezzo di età, classificandosi come la popolazione con la memoria più precoce tra quelle attualmente studiate.

Secondo le studiose, nella cultura Maori viene posta estrema importanza al passato: le madri ricordano spesso ai figli la storia passata e le tradizioni dei propri antenati. Ciò faciliterebbe il ricordo di memorie infantili più precoci rispetto ad altri gruppi culturali dove l’enfasi viene posta più sul singolo individuo. 


Anche i ricordi insegnano

È importante sottolineare che, nonostante i ricordi della prima infanzia sembrino smarriti o raramente accessibili, le esperienze vissute in quel periodo contribuiscono a formare la nostra identità e la nostra personalità.

Uno studio dei ricercatori C. Alberini e A. Travaglia ha evidenziato come l’ippocampo svolga in realtà funzioni più complesse in grado di influenzare lo sviluppo di altre strutture cerebrali e di conseguenza la capacità di “imparare ad apprendere e memorizzare”. Quindi, anche se le esperienze autobiografiche dei primi tre anni di vita vengono rapidamente dimenticate, esse contribuiscono a condizionare lo sviluppo cerebrale e psichico dell’individuo.

Bibliografia
Questo è un contenuto divulgativo e non sostituisce la diagnosi di un professionista. Articolo revisionato dalla nostra redazione clinica

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