Cos’è una diagnosi?
La terminologia della parola “diagnosi” ha origine nella letteratura greca e racchiude in sé il significato di dia - attraverso e gnosis - conoscenza. L’etimologia si riferisce al modo con cui un individuo tende a interpretare emotivamente e cognitivamente il suo “processo di conoscenza interiore”.
La diagnosi in medicina, così come in psicologia, racchiude in sé una serie di sintomi che tendono a manifestarsi attraverso disturbi che compromettono la qualità della vita.
Diagnosi: punto di arrivo o punto di partenza?
A molte persone accade di ricevere una diagnosi da uno specialista, senza venire poi indirizzate verso un percorso di psicoterapia utile a lavorare sui sintomi o sull’accettazione degli stessi. La diagnosi, che dovrebbe essere un punto di partenza per un lavoro su sé stessi, diventa così un punto di arrivo oltre il quale la persona si sente abbandonata a sé stessa e non vede alcuna possibilità di miglioramento.
La diagnosi psicologica non può essere un’etichetta che imprigiona, ma dovrebbe trasformarsi nella possibilità di iniziare un percorso evolutivo, conoscitivo e terapeutico, finalizzato a liberarsi di parti di sé non accettate, non funzionali o problematiche.
A cosa serve e a cosa non serve una diagnosi?
Bisognerebbe sempre valutare se per la persona la diagnosi può diventare uno stigma e un ostacolo. Se da un punto di vista scientifico la diagnosi può assumere importanza per il professionista, essa non deve diventare il punto centrale e soprattutto l’esito finale di un colloquio clinico. Non è possibile concludere un colloquio senza aver coinvolto la persona in un processo di accoglienza tale da farla sentire capita, accolta e sostenuta.
La diagnosi non offre uno spazio di ascolto, né un lavoro introspettivo, tantomeno una conoscenza di sé; non può essere considerata come soluzione al problema. Spesso accade che dopo aver ricevuto la diagnosi ci si senta abbandonati a se stessi. È già stato un sacrificio aver richiesto aiuto ed essersi resi conto che qualcosa nella propria vita funzionava male: il peso della diagnosi può diventare un’ ulteriore fonte di sofferenza.
Un consiglio per ognuno di noi, e per molti specialisti:
“usiamo la diagnosi solo dopo esserci messi in ascolto di noi stessi e solo dopo aver provato a lavorare su di noi, e per i professionisti, non basiamoci solo sulla pratica diagnostica, ma accompagniamo la persona verso una possibilità evolutiva e di elaborazione emotiva”
Cosa accade quando si riceve una diagnosi o si arriva in psicoterapia con un’autodiagnosi?
Molto spesso mi capita di vedere persone in preda alla preoccupazione di dare un nome ai propri sintomi. Ancor più spesso succede che si ricerchi la soluzione a tutti i propri problemi nell’esito di una diagnosi: ecco perché è importante che il professionista sappia sostenere e indirizzare la persona in un ambiente accogliente e comprensivo. Un ambiente che possa essere anche educativo rispetto a ciò che ha vissuto o a ciò che sta vivendo nel suo presente.
In altre occasioni, invece, si arriva già con un’autodiagnosi, spesso fatta attraverso ricerche sul web. Un’autodiagnosi che diventa dispersiva al punto da disorientare ancor di più la persona. È proprio per questo che la presenza di uno spazio di ascolto diventa fondamentale perché si ci possa sentire indirizzati e accolti, e con il sostegno del proprio terapeuta fare le giuste indagini.
La diagnosi, ove necessaria, sarà sicuramente un tassello utile diventare più consapevoli del proprio disagio. Allo stesso tempo deve essere anche il trampolino di lancio per immergersi in un lavoro su sé stessi. I primi colloqui e gli eventuali test da somministrare sono il punto di partenza e non la méta della conoscenza di sé.