Potremmo pensare al nostro percorso di vita come ad una costellazione di passi che ci consentono di muoverci più o meno agevolmente nel mondo. Durante i primi anni di vita, muoviamo questi passi insieme alle nostre figure di attaccamento, i caregiver.
Il primo studioso del rapporto tra caregiver e bambino e in particolare del legame madre-figlio, fu John Bowlby, il padre fondatore della Teoria dell’Attaccamento.
La Teoria dell’attaccamento: bambino e caregiver
Bowlby si chiese quali potessero essere le motivazioni insite in questo legame e si rese conto che l’obiettivo del bambino è ottenere:
- vicinanza fisica (funzione biologica, legata alla sopravvivenza)
- benessere e sicurezza (funzione psicologica).
Ecco perché quando il bambino sperimenta una minaccia al legame di attaccamento, reale o ipotetica, sperimenta ansia da separazione.
I compiti specifici del caregiver quindi sono:
- essere sensibile alle richieste del bambino;
- essere fonte di sollievo e di risorse adeguate;
- essere una base sicura alla quale rivolgersi in caso di necessità.
Modelli operativi interni: le strade per muoversi nel mondo
Lungo il suo percorso di crescita e di esplorazione, il bambino impara a costruire una moltitudine di strade per muoversi nel mondo, ovvero dei comportamenti di attaccamento che organizza in modelli operativi interni (M.O.I.), i quali:
- forniscono al bambino informazioni su di sé e sui caregiver;
- consentono di prevedere le risposte più probabili in una determinata situazione relazionale e in determinate condizioni ambientali;
- mantengono stabile il raggiungimento degli obiettivi di vicinanza, sostegno e protezione ottenuti fino a quel momento.
L’insieme dei M.O.I. rappresenta lo stile di attaccamento e, in base al fallimento o al successo delle risposte del bambino e della capacità del caregiver di mettere in atto i compiti specifici, Bowlby distinse:
- l’attaccamento sicuro: stile ottimale, poiché bambino e caregiver assolvono ai loro compiti relazionali;
- l’attaccamento insicuro: si sviluppa in circa un terzo dei bambini e tende a trasmettersi di generazione in generazione. Può influenzare negativamente comportamento, pensieri, emozioni, relazioni, ma anche autostima, benessere fisico e sviluppo morale del bambino.
L’adolescenza: tra riorganizzazione e costruzione identitaria
Crescendo, il bambino entra in relazione con un numero sempre maggiore di persone e riproporrà ciò che ha imparato con i caregiver, anche con gli altri non ancora significativi.
Quando il bambino si affaccia all’età adolescenziale, inizia una riorganizzazione strutturale e relazionale all’interno della sua famiglia e all’esterno, con il gruppo dei pari. Man mano che l’adolescente acquisisce autonomia rispetto al mondo emotivo, comportamentale e identitario, ha la possibilità di testare diversi aspetti di sé e del proprio ruolo sociale anche al di fuori della realtà famigliare.
Le funzioni di attaccamento si trasferiscono così dai caregivers ai coetanei e poi ad una eventuale relazione sentimentale, anche in base alle credenze che strutturano rispetto a intimità ed identità. Queste nuove relazioni presentano un carattere più simmetrico e paritario, di maggiore reciprocità.
L’età adulta: destino o scelta?
La ricerca sull’attaccamento si è poi spostata sulla persona adulta: dal momento che un bambino che sviluppa un determinato stile di attaccamento ha maggiori probabilità di diventare un adulto con quello stesso stile di attaccamento, è possibile evitare il circolo vizioso dell’attaccamento insicuro?
Il concetto di personalità è caratteristico dell’età adulta: lo stile di attaccamento entra quindi in stretta connessione con le dimensioni di:
- temperamento, cioè le influenze genetiche e innate;
- carattere: le influenze apprese, con una dimensione più sociale.
Verso la consapevolezza, con la terapia
Dalla ricerca scientifica emerge che nell’essere umano non siano plausibili trasmissioni ed evoluzioni lineari, ma sia più probabile che a determinare un esito o un altro sia una combinazione di diversi elementi considerati nella loro totalità come:
- ambiente;
- cultura;
- famiglia;
- genetica.
Il percorso terapeutico mira a sviluppare consapevolezza rispetto ai fattori costituenti e a modificare, dove possibile e ragionevole, quei fattori che potrebbero produrre cambiamento.
Riusciamo a immaginare quanto margine di cambiamento può esserci ancora per ognuno di noi?