Sempre più spesso oggi si sente parlare del costo psicologico, sociale ed emotivo del caregiver, cioè chi si prende cura di un proprio caro malato in una condizione di cronicità. La famiglia ha un ruolo fondamentale nel trattamento della malattia e nel sostegno indispensabile del malato, con conseguenze nella qualità di vita che comportano una riorganizzazione globale dell’intero “sistema famiglia” con:
- la routine familiare (ovvero la gestione della vita quotidiana)
- la qualità delle relazioni familiari
- la qualità delle relazioni sociali.
La figura del caregiver
Il termine caregiver deriva dal verbo inglese to care e può essere tradotto in italiano come “prendersi cura di qualcuno”, con significati legati agli aspetti di:
- preoccupazione
- accudimento
- protezione.
Si può svolgere il ruolo di caregiver in modo formale/professionale (medico, infermiere, terapisti occupazionali) o informale, ossia guidati dal legame affettivo e dal ruolo che lo unisce alla persona bisognosa di cure.
L’assistenza è spesso un carico a lungo termine, soprattutto nelle malattie croniche o neurodegenerative. Dalla diagnosi fino al termine del percorso di malattia del malato, si stima che il familiare malato viene curato per un periodo medio di 6 anni e mezzo.
Questo dato comporta che il carico assistenziale tende a modificarsi nel tempo, assumendo sembianze diverse e sempre più complesse che, se non adeguatamente supportate, possono portate a un burnout del caregiver.
Il coinvolgimento oggettivo e soggettivo nell’assistere un familiare è un aspetto da non sottostimare e che muta nel corso dell’intero periodo d’accudimento: dall’esordio delle prime responsabilità fino al trasferimento in residenza sanitaria o al decesso del malato.
Le “fasi” di percorso del caregiver
Sono spesso associate a quelle di una vera e propria elaborazione di un lutto che evolve:
- dall’acquisizione di ruolo (inizio del caregiving)
- al riconoscimento di ruolo (cure al domicilio e assistenza nelle strutture sanitarie)
- all’abbandono del ruolo (decesso del paziente o rinuncia all’accudimento).
La relazione simbiotica che si viene a creare tra assistito e caregiver apporta delle trasformazioni in quest’ultimo da divenire, nel processo di progressione della cura e della malattia, una figura da sostenere e che può soffrire un incremento dello stress percepito, dei vissuti negativi e di rabbia.
Lo stress del caregiver
L’impatto della malattia sul caregiver è stato spesso definito come caregiver burden, cioè “l’impatto complessivo delle esigenze fisiche, psicologiche e sociali nel fornire assistenza”.
Questa sindrome, ad oggi inserita all’interno della Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD 11) viene descritta come una condizione di isolamento crescente dal proprio contesto sociale e lavorativo caratterizzato da una sintomatologia sempre più invalidante di:
- ansia e depressione
- disturbi del sonno
- appiattimento emotivo
- perdita di interessi
- impoverimento delle risorse psicologiche coinvolgendo man mano tutti gli aspetti di vita.
Il Caregiver Burden Inventory
Così come sono stati sviluppati i test sul burnout, esistono anche strumenti per misurare il burden (cioè il carico assistenziale) del cargiver. Uno strumento molto usato è il Caregiver Burden Inventory (CBI), un questionario a risposta multipla che considera 5 dimensioni del carico assistenziale:
- time-dependent burden (TB) ovvero il “carico oggettivo”: stress causato dalla riduzione del tempo dedicato a se stessi
- developmental burden (DB) cioè il “carico evolutivo”: senso di fallimento delle proprie speranze e aspettative
- physical burden (PB) cioè il “carico fisico”: stress fisico e disturbi somatici
- social burden (SB) il “carico sociale”: causato dal conflitto di ruolo fra il proprio lavoro e la famiglia
- emotional burden (EB) vale a dire il “carico emozionale”: imbarazzo o vergogna causati dal paziente, senso di impotenza, colpa, solitudine, delusione, disistima di sé, rabbia, disinteresse e demotivazione verso tutto.
Prevenzione e risorse
Un ruolo fondamentale per i caregiver è rivestito sempre più dalla figura dello psicologo, perché capace di:
- valutare i bisogni e le difficoltà emotive
- accompagnarli nella comprensione dei diversi aspetti e fasi della malattia del proprio caro
- fornire aiuto per la risoluzione di problemi e sostegno emotivo.
Aspetti efficaci e protettivi da considerare possono essere:
- un’adeguata informazione sulla malattia, sulla sua evoluzione e sulle cure disponibili (che possono essere anche cure palliative), attraverso obiettivi realistici
- la formazione, che può comprendere tutto quello che il familiare può fare per migliorare la qualità dell’assistenza al suo congiunto, e della propria qualità di vita
- il supporto ai familiari, che tendono a mettere in atto comportamenti e vissuti disfunzionali legati al ritiro sociale perché sono polarizzati sulla cura. Prevale un atteggiamento di "autosacrificio" con vissuti di rabbia, vergogna o disagio attraverso percorsi di problem solving mirati a migliorare le proprie capacità di fronteggiamento dello stress e di resilienza
- il supporto sociale/istituzionale che eviti il pregiudizio e la stigmatizzazione nei confronti della malattia e del malato, e può essere esteso anche alla famiglia
- i percorsi di sostegno psicologico individuale e familiare, che possono svolgere un’azione importante nel sostegno e nel mantenimento della motivazione del caregiver, aumentando la consapevolezza emotiva e migliorandone le capacità comunicative e le conoscenze sulla patologia, sul suo manifestarsi e sulla sua evoluzione.