Ethos racconta di quando ci sentiamo bloccati tra emozioni e vissuti apparentemente opposti che non riusciamo a conciliare. Parla di quando non riusciamo a riconoscere un significato in queste istanze così diverse e ci manca la libertà di sentire di essere interamente noi. Racconta dell’integrazione di parti diverse di noi, un percorso intimo e personale, legato alla nostra specifica storia.
Qual è l’integrazione di cui parla Ethos?
Quasi tutti i personaggi della serie sembrano provare sofferenze legate alla difficoltà di poter unire parti diverse di sé e di riappropriarsene. Ciò accade perché queste parti sembrano non riuscire a comunicare, a trovare un modo di coesistere dentro la persona, e non poter essere incluse dentro di sé e la propria esistenza. Quando ciò accade, spesso si tratta di:
- conflitti interni che sembrano sempre ostacolarci nelle decisioni
- eventi dolorosi o traumatici ai quali non riusciamo ancora a dare un significato
- segreti che custodiamo in solitudine
- vissuti e sentimenti che viviamo come inaccettabili.
Insomma, tutte parti di noi messe a tacere o esiliate perché non tollerabili e la cui possibilità di essere percepite come parti integranti di noi è ostacolata dal dolore e dalla paura di crollare e di non riconoscersi più. Man mano che la storia evolve, questo tema d’inconciliabilità tra parti di sé prende sempre più piede attraverso tutti i protagonisti principali e le loro differenze di genere, di ceto sociale, di religione.
I personaggi sperimentano un blocco nel sentire internamente temi e vissuti così diversi da sembrare inconciliabili. Questo accade per il personaggio di Ruhiye, per cui l’esperienza d’abuso infantile ostacola la possibilità di avere una relazione serena con il marito e i figli. Accade per la psichiatra Peri, dominata da pregiudizi che lei stessa sente intimamente come ingiusti. Accade per l’Hodja, rispetto al segreto con la figlia e accade per Yasin, che non riesce ad accogliere la sofferenza della moglie, se non con la rabbia, almeno per buona parte della storia.
Cosa viviamo quando parti diverse di noi non si incontrano?
Quando ci sentiamo separati, ci sentiamo soli e coinvolti in un monologo dove sembra non esserci spazio per un interlocutore. In questi casi la solitudine e l’assenza dell’altro divengono una gabbia che ci blocca in una continua sensazione di fatica legata al sentirci tra due poli opposti senza comprendere davvero quali siano le nostre paure e i nostri desideri. Quando questo accade è possibile sentirsi senza un luogo sicuro che ci permetta di aprire le porte verso il mondo esterno. É qui che possono emergere dei sintomi, tutti accumunati dalla sofferenza, e raccontati nella serie TV attraverso:
- depressione
- rabbia
- svenimenti
- continua ricerca di partner sessuali
- difficoltà di entrare in intimità relazionale.
Questi sintomi, però, spesso trovano un significato se messi in relazione a quelle parti di noi che allontaniamo e che rifiutiamo, dominati come siamo dal timore di non poterle neppure pensare.
Come si può costruire un ponte che unisce?
L’ambientazione delle storie dei personaggi di Ethos non poteva essere migliore poiché riguarda una città, Istanbul, che mette in scena perfettamente questo tema legato alla fatica dell’integrazione. Istanbul è un luogo a cavallo tra due mondi, in cui si incontrano temi e storie apparentemente così diverse da sembrare opposte in termini di cultura, religione, colori e sapori.
Ma questa città, in cui il Bosforo separa Oriente e Occidente, ha tre ponti che la uniscono. Questi ponti riescono fisicamente e simbolicamente a far parlare l’antico e il moderno, l’Europa e l’Asia, rendendola una città intera. Ed è proprio grazie alla costruzione di ponti che i personaggi riescono a trovare un modo per far incontrare i propri conflitti interni e le proprie parti.
La psicoterapia non lascia mai soli
Il timore legato all’includere e accogliere alcuni dei temi così spaventosi della nostra storia è comprensibile ma anche, e soprattutto, legato al pensiero di dover affrontare quei temi in solitudine. Quando, invece, si incontra un interlocutore quei nodi divengono meno minacciosi. Viene concesso loro di essere riconosciuti come parti di noi e si possono anche trasformare in parti preziose.
È questo, a mio parere, uno degli obiettivi più importanti della psicoterapia. Lo vediamo nel pianto finale di Yasin, nell’amicizia tra Peri e Melisa, nel viaggio finale in camper quando l’Hodja incontra uno sconosciuto a cui racconta dell’adozione della figlia. Lo vediamo anche in tanti altri processi che si mettono in moto quando inizia a presentarsi l’occasione e la possibilità di far parlare, di ripensare e di far incontrare le diverse parti dei protagonisti. Quando insomma si inizia a camminare sui propri ponti.
La psicoterapia è la sola strada verso l’integrazione?
Ci tengo, infine, a sottolineare un altro aspetto significativo che a mio parare scorre tra le righe di Ethos, in modo neanche troppo nascosto. La psicoterapia è una questione umana e comunitaria e non solo una questione chiusa nello studio tra il paziente e il terapeuta. La psicoterapia non fa altro che occuparsi del vivere umano, che è una questione complessa e parte integrante del nostro stare al mondo.
L’integrazione è una questione continua lungo la nostra vita e c’è sempre l’occasione di iniziare processi terapeutici. Su questo aspetto, Ethos ci dice molto: anche se le protagoniste principali si incontrano nella stanza di terapia, la storia si evolve anche e soprattutto nel mondo esterno innescando processi di cambiamento terapeutico che vanno ben oltre le mura di uno studio.
La psicoterapia ha la funzione di guidarci per trovare quei ponti sul Bosforo, un luogo dove potremo incontrare l’altro e il mondo. Certo, non cammineremo sempre sicuri su quei ponti ma, certamente, sapremo che c’è uno spazio, una casa, in cui è stato possibile far dialogare parti diverse di noi.