Mentre per gli stati d’animo o alcune sensazioni siamo abituati a utilizzare il verbo essere, per le malattie fisiche il verbo prediletto, e forse l’unico utilizzato, è il verbo avere. Non avrete sicuramente mai sentito qualcuno dire “sono la febbre”, “sono il raffreddore” o “sono il mal di testa”, perché si dice: “ho la febbre”, “ho il raffreddore” o “ho mal di testa”.
Perché non diciamo “sono la febbre” o “sono il mal di testa”?
La risposta in questo caso è semplice: perché noi non ci identifichiamo con la febbre o con il mal di testa, essendo queste condizioni temporanee, momenti in cui non ci sentiamo molto bene ma che sono curabili e passeggeri e in cui, indubbiamente, non ci rispecchiamo.
Quando ci si ammala di influenza non si diventa l’influenza e l’influenza non diventa noi, è solo un momento passeggero che molto presumibilmente passerà. Può limitarci, ma sicuramente non è una caratteristica intrinseca alla nostra persona e non ci definisce. È qualcosa che possiamo avere o non avere.
E per i problemi psichici?
Questo ragionamento, che funziona così bene per le malattie fisiche e che fa parte del nostro modo di pensare, cambia però drasticamente quando invece ci riferiamo ai problemi mentali.
Quando parliamo di malattie cosiddette psichiche usiamo il verbo essere. Infatti diciamo:
- sono depresso;
- sono un tossicodipendente;
- sono anoressico;
e raramente sentiamo dire “ho la depressione”, “ho la tossicodipendenza”, “ho (o ho avuto, perché no?) l’anoressia”.
Un modo di dire istintivo
Utilizzare il verbo essere per riferirci a determinate condizioni psicologiche è una cosa che viene naturale, come quando diciamo di una persona spaventata che “è proprio una femminuccia”.
Lo diciamo senza pensare al significato letterale, è un modo acquisito e, anche se non è nostra intenzione affermare davvero che una donna è debole e un uomo è forte, questo modo di dire nasce proprio in questa accezione.
Cosa si cela dietro questa abitudine linguistica?
La differenza tra essere e avere potrebbe sembrare un problema di semantica ma è invece una cosa molto importante, che cambia drasticamente il significato delle frasi.
Nella lingua italiana il verbo essere indica qualcosa di statico. Il significato dunque è quello di “esserci”, “stare”, “sostare”. Questo verbo ci aiuta a definire la nostra identità, ecco perché lo usiamo per parlare di noi stessi. Per questo motivo sarebbe importante usare il verbo essere con molta cautela nell’ambito delle malattie mentali.
Il rischio di usare un verbo sbagliato
Utilizzare un verbo sbagliato rischia di far diventare queste malattie non solo come qualcosa che fa parte di noi, ma come qualcosa che diventa noi, qualcosa che coincide con il sé e che quindi è sostanzialmente immutabile o molto difficile da cambiare.
Questo modo di definire una malattia mentale crea un forte senso di immobilità e di impotenza. Significa che al massimo possiamo migliorare, ma che la cosa che siamo farà sempre parte di noi. E questa sensazione di staticità, di imperturbabilità ed immutabilità, rischia di farci cadere nel “per sempre” e nel “guarire mai”.
Perché non usiamo il verbo avere nelle malattie mentali?
Per trovare questa risposta si possono fare molte ipotesi. È il pregiudizio culturale che ci porta a trattare diversamente i tipi di malattia? Sicuramente si possono trovare alcuni elementi originari nella nostra cultura. Le malattie mentali sono da sempre state considerate come qualcosa di malvagio, di imprevedibile e di pericoloso.
Nell’antichità i malati mentali erano allontanati, uccisi, discriminati. Una prova emblematica sono i manicomi. Per approfondire consigliamo la lettura del libro “Storia della follia nell’età classica”, in cui il sociologo e filosofo Foucault descrive tutta l’evoluzione delle case di cura, la cui fine è stata riconosciuta con la legge Basaglia.
Se usassimo il verbo avere anche per le malattie mentali cosa cambierebbe?
Dire “ho la depressione”, “ho una tossicodipendenza”, “ho l’anoressia”, introduce due elementi importantissimi: il tempo e la possibilità di cambiamento.
- Il tempo: non è più qualcosa di statico o che fa parte di noi, ma qualcosa che abbiamo al momento e che quindi potremmo anche non avere;
- Il cambiamento: l’essere “così ora” e non per sempre, dà la possibilità di fare meglio, di cambiare, percependo la possibilità di una guarigione.
Proprio dalla percezione del cambiamento scaturiscono altre domande, orientate al futuro:
- “Se sono o sono stato depresso, dovrò esserlo per sempre?”
- “Cosa accadrebbe se non avessi più la depressione?”
- “Cosa accadrebbe se non fossi più anoressico?”
Questo diverso modo di pensare non è certo facile o veloce: richiede tempo, fatica, sofferenza e possono esserci delle ricadute. Abbiamo però una grande opportunità: ritrovare la responsabilità verso noi stessi e avere la possibilità di fare qualcosa al riguardo. E quindi di guardare e addirittura pensare al futuro.