Famiglia

Adozione: tra abbandono e desiderio

Adozione: tra abbandono e desiderio
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Loredana Fedora Morlino
Redazione
Psicologa ad orientamento Psicoanalitico
Unobravo
Pubblicato il
7.2.2020

Il termine "adottare" deriva dal latino adoptare e ha il significato di "scegliere", "desiderare". Nel caso in cui il figlio adottato è frutto di un abbandono familiare, il movimento adottivo e quello abbandonico sono intimamente connessi:

  • dalla rottura del legame affettivo che segna i bambini adottati;
  • dall’impossibilità, spesso, per i genitori adottivi di essere fecondi insieme.

Eppure, l’adozione non andrebbe intesa come il sostituto di una gravidanza che non si è concretizzata, ma come uno specifico modo di “fare famiglia”. Al figlio adottivo va riconosciuto il diritto di chiedere delle sue origini. Tale ricerca non va interpretata come un allontanamento dalla famiglia adottiva, ma come la possibilità di costruire insieme un’esperienza di nuova nascita, aiutando il figlio ad integrare il prima e il dopo l’adozione.

Minimizzare quello che i figli adottivi hanno perduto, infatti, rischia di compromettere la capacità del figlio di fare i conti con il suo lutto, dando forma ad un “lutto delegittimato”. Il supporto dei professionisti ai genitori può offrire loro delle indicazioni su come parlare dell’adozione, per facilitare processi di adattamento psicologico più sani.

“Concepire” un figlio

Il desiderio di concepire un figlio condensa in sé l’istinto di continuare la specie con la trasmissione dei propri geni, e la chimera di trascendersi nel figlio: possiamo parlare del desiderio di immortalità, la cui potenza risiede nel potere di allontanare l'angoscia di morte. Eppure, la venuta al mondo di un bambino non fa dei suoi genitori biologici dei genitori a tutti gli effetti.

Come la sessualità non sempre collima con il desiderio di procreazione, così l’atto sessuale riproduttivo non sempre corrisponde alla genitorialità. Il concepimento di un figlio non può considerarsi come una mera questione biologica. Concepire un bambino significa prima di tutto desiderarlo, generarlo nella propria mente e in quella della coppia, ed è, come sostiene lo psichiatra Vittorio Lingiardi, “anche salvarlo dallo spaesamento di un orfanotrofio o dal trauma di un contesto abusante”.

Karolina Grabowska - Pexels

Il legame con l’oggetto d’amore

L’adozione, se ci soffermiamo sul carattere volontario della genitorialità, consente di slegare il corpo e la sua funzione biologica dal desiderio di filiazione. Lo psicanalista D. Winnicott sosteneva che gli impulsi altruistici e le azioni positive come il prendersi cura, prendono forma dal senso di preoccupazione responsabile che il bambino prova verso i propri oggetti d’amore, maltrattati in fantasia con le sue emozioni intense.

Il desiderio di adottare un bambino, quindi, affonda le radici nel legame con il primo oggetto d’amore, solitamente la madre, ed è quindi connesso al bambino e alla bambina che quei genitori sono stati. Ascoltare il proprio bambino interno permetterà di accostarsi al ruolo genitoriale con la spontaneità propria della creatività, che facilita la nascita di un linguaggio “giusto” per i diversi momenti di vita.

La ricerca delle origini e il senso di appartenenza

L’identità del bambino adottato si origina in due famiglie, le cui trame confluiscono in un'unica storia. Uno degli ardui compiti dei genitori adottivi è quello di costruire una continuità temporale, connettere il passato preadottivo con il presente adottivo, per dare forma al legame e consolidare il sentimento di sé del bambino così come della genitorialità.

Come insegna il mito di Edipo, una storia di abbandono e di adozione, la domanda “Chi sono io e da dove vengo?” nei figli adottivi spesso si ribalta in “Qual è il mio destino?”. Come in Edipo, racchiude in sé la ricerca delle origini, propria di ogni essere umano. Tale ricerca, nell’adottato, comporta l'elaborazione della paura dell’abbandono, in un percorso in cui il bambino dovrà sentire di far parte di un legame che lo contiene e che lo possa aiutare a risignificare la relazione perduta, altrimenti schiacciante e persecutoria.

La costruzione dell’identità

Chiedere delle proprie origini, permette al bambino adottato di legittimare:

  • le sue sensazioni
  • i suoi ricordi
  • le sue emozioni.
RODNAE Productions - Pexels

Tutto ciò che, citando Calvino, “partecipa alla costruzione dell’identità”. Quando non si ha modo di accedere alla storia reale del figlio adottivo, si può dare forma ad un atto creativo costruendo con lui storie verosimili, per accompagnarlo nel costruire un’identità possibile.

Questa storia può essere reinventata a seconda dei bisogni che ha il figlio man mano che cresce. La ricerca e la narrazione delle origini, quindi, può essere rifatta continuamente, aggiungendo qualcosa in più e risignificando la storia identitaria, il senso di appartenenza e il vissuto abbandonico del figlio adottivo.

Come parlare dell’adozione

Nel complesso mondo delle famiglie adottive, lo psicologo può aiutare i genitori nel supportare il senso di coesione e di identità del figlio adottivo, così come della coppia genitoriale. Alcuni degli aspetti da tenere a mente, concernenti la condivisione della storia adottiva, sono:

  • parlare dell’adozione con i propri figli considerandolo un processo, non un episodio
  • condividere le informazioni relative all’adozione, ovvero favorire un dialogo aperto e rispettoso con i propri figli, dando loro la possibilità di fare domande
  • aprire il racconto dell’adozione con la nascita e la diversità familiare, non con il momento dell’adozione
  • legittimare la curiosità e i sentimenti dei bambini rispetto alla loro adozione e ai genitori biologici
  • essere consapevoli dei propri sentimenti e dei significati attribuiti alla loro scelta adottiva
  • evitare giudizi negativi sui genitori biologici o sulla storia pregressa del bambino
  • adattare le informazioni difficili o violente riguardanti il passato del figlio
  • essere pronti ad aiutare i propri figli ad affrontare la perdita e il lutto.

Bibliografia

Questo è un contenuto divulgativo e non sostituisce la diagnosi di un professionista. Articolo revisionato dalla nostra redazione clinica

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