Lo psicologo alimentare

Lo psicologo alimentare
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Simona Ciaccio
Redazione
Psicoterapeuta ad orientamento Psicodinamico
Unobravo
Articolo revisionato dalla nostra redazione clinica
Pubblicato il
29.4.2024
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Recentemente definiti anche disturbi della nutrizione e dell'alimentazione (DNA), i disturbi del comportamento alimentare (DCA) rappresentano una diffusa forma di disagio psicologico. La loro complessità risiede nell’intreccio di fattori che vi sono implicati, sia per quanto riguarda il processo eziologico, che per il quadro prodromico e per la prognosi circa le ipotesi sull’esito della malattia.


Secondo il ministero della Salute, l’anoressia e la bulimia negli adolescenti e nei giovani adulti dei paesi Occidentali sono uno dei problemi di salute più diffusi, con elevati tassi di mortalità. In aggiunta, negli ultimi anni si è riscontrato un esordio sempre più precoce, inasprendo in tal modo i rischi soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo psicofisico del paziente prepuberale.


L’aumento dell’incidenza dei DCA è accompagnato dallo sviluppo di studi sempre più specifici, orientati a una maggiore comprensione degli stessi. Di conseguenza, la crescente attenzione della comunità scientifica si riscontra anche nella formazione sempre più specialistica per tutte le figure professionali coinvolte nel trattamento di questi disturbi, come lo psicologo alimentare


In questo articolo scopriremo di più su questa figura, ponendo l’attenzione sull’importanza di una formazione specifica al fine di offrire un trattamento clinico che sia adeguato alla complessità dei DCA e, soprattutto, alle caratteristiche peculiari del paziente.

Chi è lo psicologo del comportamento alimentare


Lo psicologo del comportamento alimentare è un professionista al quale rivolgersi in caso  di manifestazioni sintomatiche proprie dei disturbi alimentari. È anche una specializzazione cui fare riferimento in quei casi in cui vi sono problematiche nel rapporto con il cibo, indipendentemente dall’espressione di veri e propri sintomi psicopatologici.


In questi casi è fondamentale elaborare una diagnosi che sia tempestiva e, al contempo, in grado di definire le caratteristiche del funzionamento psicologico della persona che chiede aiuto, al fine di individuare il percorso psicoterapeutico più idoneo, nell’ottica del rispetto delle differenze personologiche di ciascun individuo. 


Cosa fa lo psicologo alimentare


La complessità del processo diagnostico è causata dalla multifattorialità che caratterizza i DCA, sia dal punto di vista psicologico, sia da quello fisico, laddove può essere presente un quadro di comorbilità psichiatrica. Per esempio, Bulik et al. (1997) hanno individuato in un gruppo di pazienti con anoressia nervosa e con bulimia la presenza di disturbi d’ansia, precedente l’insorgenza di sintomi alimentari con una percentuale rispettivamente del 90% e del 94%. Da qui, l’importanza di porre particolare attenzione alla persona nella sua totalità, alla sua storia personale e familiare, e non unicamente sui sintomi riguardanti il rapporto con il cibo (Antonini A., 2018).


Nella fattispecie, è fondamentale che il processo diagnostico includa la comprensione della struttura di personalità del paziente, ovvero il suo funzionamento pre-morboso, la presenza di comorbilità e il contesto sociale, analizzando in particolare la costellazione familiare nel quale si inscrive la sua personalità. Pertanto, è necessario affiancare alla diagnosi categoriale, una descrizione del funzionamento di quella specifica persona: come vive il paziente i sintomi anoressici? Cosa significa per lui essere “portatore di bulimia”?


Lo psicologo alimentare può far riferimento alle categorie diagnostiche del DSM-5-TR (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), cui corrispondono dei precisi criteri che si appoggiano all’osservazione fenomenologica dei sintomi. Il PDM-2 (Manuale Diagnostico Psicodinamico) propone altresì una lettura dell’esperienza soggettiva associata, in questo caso, ai DCA, che favorisce un’analisi più approfondita della sofferenza del paziente. 


La fase di assessment prevede l’utilizzo del colloquio clinico per l’anamnesi personale e familiare dell’individuo, partendo dal racconto della sua storia di vita e delle tappe più importanti che lo hanno definito. Lo psicologo del comportamento alimentare si focalizza, inoltre, sulla “familiarità” di DCA e di disturbi psichiatrici in generale nella costellazione familiare, e indaga la presenza o assenza di eventi significativi e di possibili traumi psicologici nella stessa. 


L’analisi della personalità può essere effettuata, per una maggiore completezza, con l’utilizzo di questionari e di test sui DCA standardizzati, i quali favoriscono l’acquisizione di informazioni relative al funzionamento del paziente e della sua esperienza soggettiva. Nonostante ciò, è necessario ricordare che l’efficacia di tali strumenti è direttamente proporzionale alle conoscenze scientifiche e alle competenze del professionista, unitamente alla facoltà di organizzare tutte le informazioni raccolte (Disturbi dell’Alimentazione e della Nutrizione. Linee di indirizzo, Ordine Psicologi Regione Campania).


Lo psicologo del comportamento alimentare dovrebbe avere una particolare sensibilità nel processo di diagnosi differenziale, ovvero essere in possesso di competenze cliniche orientate all’osservazione e all’eventuale identificazione di sintomi e, in generale, di dati che potrebbero ricondurre alla presenza di ulteriori forme di sofferenza psicologica. Lo spettro dei DCA può, infatti, essere accompagnato da differenti quadri psichiatrici come, per esempio,  depressione, disturbi d’ansia sino a interessare anche i disturbi di personalità. Sarà importante comprendere se l’inanizione lamentata o osservata nel paziente sia una conseguenza diretta di una riduzione dell’assunzione di cibo, oppure se rappresenti l’effetto di una differente condizione medica o psichiatrica.

Per descrivere in modo più approfondito la complessità della diagnosi, che grava sulle spalle di uno psicologo del comportamento alimentare, riporto le parole di Hilde Bruch, psichiatra esperta nel trattamento dell’anoressia: “[...] nelle mie prime formulazioni, indicavo tre caratteristiche tipiche del disturbo anoressico: una falsa percezione del proprio corpo, una confusione circa le proprie sensazioni corporee e un senso onnicomprensivo d’incapacità. Ora sono incline a considerare queste caratteristiche sotto un’etichetta più ampia, cioè come espressione di un concetto di sé deficitario [...]”.


L’osservazione clinica di Bruch ha trovato un riscontro importante in ricerche condotte in anni successivi: inizialmente si ipotizzava che i disturbi di personalità rappresentassero un fattore di rischio nell’insorgenza di condotte alimentari disforiche, mentre concettualizzazioni più recenti inducono a pensare che, probabilmente, i DCA possano modificare direttamente alcuni aspetti della personalità, anche attraverso l’azione fisiologica e chimica che l’assenza di sostanze nutritive può causare al cervello. 


Psicologia e alimentazione: il benessere passa anche dal cibo


I disturbi dell’alimentazione sembrano rappresentare una condizione clinica del nostro tempo, probabilmente in relazione ai rapidi cambiamenti che stiamo vivendo, soprattutto attraverso il bombardamento, da parte dei mezzi di comunicazione di massa, di immagini rappresentanti canoni di bellezza ben definiti.


Nonostante si parli più spesso di anoressia e bulimia, negli ultimi anni sono aumentati gli studi inerenti lo spettro sintomatologico dei DNA, attraverso l’individuazione e la specificazione di ulteriori quadri diagnostici. Il DSM-5 ha, per esempio, aggiunto il disturbo da binge-eating che si differenzia dalla bulimia principalmente per l’assenza di condotte compensatorie invalidanti (Marcus, Wildes, 2014).


Quale legame esiste, quindi, tra alimentazione e psicologia?


Si tratta di una domanda complessa, in quanto il comportamento alimentare è una dimensione che accompagna l’essere umano sin dalla nascita. Il processo di costruzione dell’identità è strettamente connesso alle cure del caregiver, tra cui l’allattamento; nello specifico, la psicoanalisi ha da sempre sostenuto una sostanziale differenza tra l’allattamento al seno e quello artificiale. Basti pensare alla Teoria delle Relazioni Oggettuali della psicoanalista Melanie Klein, oppure agli studi di Margaret Mahler in merito alle dinamiche che si manifestano nella coppia madre-figlio, sia normali sia patologiche.


Nonostante ciò, se collochiamo l’esperienza umana su un continuum che procede da una condizione di “normalità” a una di “patologia”, può essere interessante considerare l’alimentazione anche attraverso una coloritura più sfumata, laddove vi possono essere manifestazioni di sofferenza in condotte velate, meno evidenti rispetto al rifiuto del cibo, oppure a episodi di abbuffate.


Nella pratica clinica, si presentano spesso pazienti che riportano sentimenti di ansia e angoscia a causa del loro rapporto con il cibo. Raccontano, per esempio, di non riuscire a seguire diete prescritte da nutrizionisti, riportano disagio e sofferenza nella convivenza familiare in relazione alla gestione dei pasti. Inoltre, vi sono casi in cui la comprensione clinica è ostacolata da meccanismi sottostanti che rimandano – almeno in apparenza – a differenti quadri sintomatologici come, potenzialmente, una coloritura affettiva deflessa o un tono dell’umore ansioso.


A tal proposito, è importante porre l’attenzione anche a questa tipologia di situazioni, nelle quali il rapporto con il cibo assume le sembianze di una vera e propria forma di comunicazione. L’alimentazione può diventare uno strumento attraverso il quale, consapevolmente o inconsciamente, trasmettere il malessere emotivo esperito da una persona, ad esempio in periodi in cui è particolarmente sotto stress per i ritmi quotidiani, oppure dopo la rottura di una relazione sentimentale. 


Questo meccanismo è stato altresì osservato dall’Infant Research, i cui studi hanno evidenziato che, a partire dai primi mesi di vita, in situazioni di dis-regolazione emotiva più o meno gravi, l’infante può utilizzare l’alimentazione come modalità per comunicare una forma di sofferenza, di frustrazione e, di conseguenza, per attirare l’attenzione del caregiver


Pertanto, il rapporto con il cibo ci accompagna dalla nascita e può rappresentare, a livello simbolico, un espediente nella creazione e nello sviluppo delle nostre relazioni. Vi è un importante intreccio con emozioni e sentimenti, laddove una persona si prende cura dell’altro attraverso l’alimentazione, soddisfacendo il bisogno biologico del bambino di essere nutrito e quello altrettanto primario di relazionarsi con lui. 

La pregnante valenza simbolica dell’alimentazione è quindi definita dai suoi aspetti emotivi e relazionali, i quali arricchiscono a loro volta la nostra identità. Pertanto, l’immagine corporea che ciascuno crea ed elabora in merito a sé rappresenta una colonna portante in questa dinamica, in quanto connessa in modo intrinseco al concetto che abbiamo di noi stessi e, parallelamente, a quello che immaginiamo gli altri abbiano di noi (Ricca V. et al).


In particolare, DNA e DCA sono caratterizzati da un’eccessiva preoccupazione per il proprio peso e da una percezione errata della propria immagine corporea, sino ad attribuire il proprio valore personale in relazione a questi canoni, definiti anche nel meccanismo di interscambio con il contesto socio-culturale: l’influenza dei media e dei genitori assume una rilevanza cardine nel processo di sviluppo, forse in misura maggiore rispetto al confronto con i coetanei, soprattutto in età adolescenziale (Field et al., 1999).


L’inizio di diete restrittive può essere conseguenza della visione di immagini raffiguranti donne particolarmente magre e di successo. È da precisare, però, che vi è una differente suscettibilità e sensibilità a queste rappresentazioni, probabilmente in relazione alla forza dell’Io, dell’autostima e, in generale, alla struttura di personalità di ciascuno di noi.


La distorsione dell’immagine corporea raggiunge in alcuni casi livelli di gravità tali da influenzare l’esito stesso dei trattamenti: nonostante la remissione dei sintomi, sussiste una certa vulnerabilità a ricadute, soprattutto se si registra la persistenza di questa dimensione psicopatologica (Garner et al., 1987). Questa dimensione evidenzia quindi la necessità di investire in ulteriori studi, in quanto i meccanismi che vi sono alla base, a causa della complessità implicita, non sono ancora del tutto chiari laddove la comorbilità con altri quadri psicopatologici rappresenta un fattore determinante nell’individuazione di un percorso di trattamento adeguato a quello specifico paziente.


Come offrire sostegno a persone con DCA e DNA


Dinanzi a un sospetto disturbo del comportamento alimentare, è necessario procedere con cautela, prestando la massima attenzione a tutti i fattori che possono essere coinvolti. È necessario, innanzitutto, avere piena coscienza e consapevolezza in merito alla propria esperienza professionale, quindi massima sincerità deontologica ed etica in relazione alle competenze a nostra disposizione.


Nella fattispecie, è fondamentale avere la possibilità di essere affiancati da colleghi con i quali confrontarsi, per esempio in supervisione permanente, non unicamente per un confronto tra differenti esperienze, bensì nell’ottica di esercitare anche attraverso lo sguardo dell’Altro


In aggiunta, di vitale importanza è la collaborazione con un’équipe di professionisti che sostenga il processo di elaborazione della diagnosi, soprattutto in caso di comorbilità. È bene precisare che la multidisciplinarietà è necessaria, soprattutto per quanto riguarda la figura di medici psichiatri, nutrizionisti e altri medici specialisti, in relazione alle esigenze del caso specifico.


È necessario, quindi, procedere con una prima valutazione psicodiagnostica, attraverso la raccolta anamnestica e l’utilizzo di test che favoriscano una più specifica e precisa definizione del funzionamento mentale del paziente.


A tal proposito, si specifica che la valutazione psicodiagnostica assume una certa rilevanza dal punto di vista categoriale, ma soprattutto in una dimensione funzionale, al fine di individuare il percorso di cura più idoneo alle caratteristiche della persona che chiede aiuto, secondo l’assunto che ciascuno di noi è unico e irripetibile, anche nell’espressione della sua sofferenza.


Lo psicologo alimentare dovrebbe inoltre avere un quadro del contesto di vita del paziente, sociale, culturale e soprattutto della costellazione familiare, nell’ottica di individuare i fattori di rischio e le risorse dello stesso.  Tendenzialmente, il trattamento dei DCA prevede anche il coinvolgimento dei familiari, specialmente nel trattamento di bambini ed adolescenti.

I disturbi del comportamento alimentare sono fonte di sofferenza per chi manifesta i sintomi e per i suoi familiari. Questi ultimi riportano sentimenti di frustrazione, paura, ansia e impotenza dinanzi all’afflizione del loro caro. In tale contesto, lo psicologo ha la possibilità di offrire loro uno spazio di ascolto e di supporto attraverso una vera e propria spiegazione e descrizione delle caratteristiche dei DCA, offrendo indicazioni e suggerimenti sulle modalità di approccio e di comunicazione con il familiare che ne soffre e, se necessario, proporre loro un percorso di psicoterapia individuale. 


Lo psicologo assume quindi il ruolo di “facilitatore” nella comunicazione tra i familiari e il paziente, sostenendoli nella loro assunzione di responsabilità nei termini di agenti attivi nel processo di cura. La famiglia diventa quindi una risorsa per incrementare la ripresa del benessere psico-fisico del figlio e ridurre così il rischio di ricadute, evitando la messa in scena e la ripetizione di modelli relazionali disfunzionali, che potrebbero supportare inconsapevolmente il sintomo.


Come diventare psicologo alimentare


Lo psicologo del comportamento alimentare è una specializzazione professionale relativamente recente e nasce a partire da una maggiore attenzione nei confronti del ruolo delle dimensioni biologiche e sociali implicate nei DCA e DNA.


In qualità di professione sanitaria, lo psicologo che lavora in un’équipe multidisciplinare dovrebbe essere in possesso di una formazione specifica e di un’esperienza orientata a una maggiore comprensione del fenomeno. In particolare, tali conoscenze riguardano il funzionamento mentale e i risvolti biologici che tali meccanismi riportano a livello fisiologico, al fine di favorire una lettura dei meccanismi sottostanti che sia onnicomprensiva dei fattori coinvolti.


Titoli e formazione


La complessità dei disturbi del comportamento alimentare richiede una formazione specifica, sia a livello strettamente nozionistico, sia in una dimensione esperienziale, sebbene sia importante ricordare che lo psicologo del comportamento alimentare è una figura non formalmente prevista dalla legislazione vigente. Possiamo comunque affermare che la sola preparazione in psicologia e psicoterapia potrebbe non essere sufficiente per affrontare tali quadri psicopatologici.


Pertanto lo psicologo, in quanto figura sanitaria, ha il dovere etico e deontologico di approfondire le conoscenze nell’ambito dei DCA, per esempio attraverso Master proposti da enti accreditati e riconosciuti in materia di psicobiologia della nutrizione e dell’alimentazione. 


Nelle competenze specifiche inseriamo, altresì:

  • conoscenza del ruolo assunto dai meccanismi bio-psicosociali presenti nel rapporto con il cibo
  • conoscenza dei principali strumenti diagnostici
  • capacità ed esperienza nello svolgimento del colloquio clinico 
  • competenza e la predisposizione al lavoro di gruppo, nell’ottica della multidisciplinarietà. 


Dove lavora lo psicologo esperto in nutrizione?


Lo psicologo che si specializza nel trattamento dei disturbi alimentari ha la possibilità di essere inserito in contesti multidisciplinari, sia pubblici sia privati.


In particolare, nel settore pubblico tale figura può essere coinvolta nella valutazione di idoneità all’intervento di chirurgia bariatrica e, successivamente, a supporto nella gestione dell’alimentazione post-operatoria.


Lo psicologo del comportamento alimentare può essere previsto anche per i pazienti con diagnosi di diabete o celiachia, nell’ottica di favorire l’accettazione della stessa e di sostenerli nella gestione della dimensione emotiva, in relazione alla diagnosi.


Inoltre, sia nel settore privato che in quello pubblico, il professionista specializzato in DCA ha l’opportunità di operare in strutture e reparti che si occupano di trattare i comportamenti disadattivi, di supportare i familiari e di favorire  la compliance al trattamento psicologico e medico.

In ultimo, ma altrettanto importante, ci si può impegnare in programmi di prevenzione e di psico-educazione alimentare, ponendo l’attenzione sui risvolti emotivi ed affettivi che possono essere fonte di sofferenza.


La prevenzione è la miglior cura


Questo articolo si pone come fonte di domande e non di risposte. Nonostante ciò, si è voluto proporre uno sguardo sullo status attuale in merito al potere d’azione della figura dello psicologo nel trattamento dei DCA. Seppure non sia stato approfondito in queste righe, si vuole sottolineare l’importanza di direzionare la ricerca clinica anche verso la prevenzione, in un processo di interscambio tra i potenziali pazienti e gli educatori, ovvero coloro che, per professione o per ruolo sociale, hanno in carico i giovani (genitori, insegnanti, allenatori).


Fermo restando che i DCA sono manifestazione di una sofferenza emotiva che coinvolge e totalizza la vita della persona, possiamo considerare che la prevenzione passi anche dal favorire una maggiore comunicazione tra giovani e adulti e una più estesa espressione delle emozioni. Questo può essere possibile attraverso la creazione di contesti di vita comprensivi e accoglienti, in contrasto alla società moderna orientata alla performance e al risultato.


È importante sottolineare l’importanza della formazione continua dei professionisti, sia dal punto di vista professionale, sia da quello personale ed esperienziale. Formazione continua vuol dire studiare, aggiornare e ampliare le proprie conoscenze in un contesto di supervisione permanente che favorisca lo sviluppo del nostro sentimento sociale, in avversione all’individualismo moderno.


Formazione continua, infine, come espressione di un nostro movimento interno, orientato alla conoscenza di noi stessi, attraverso un percorso di analisi personale, laddove essere consapevoli dei meccanismi profondi che ci orientano nel mondo è elemento fondamentale per presentarci come “accompagnatori” nel processo di cura e di ricerca di significati per i nostri pazienti. 


BIBLIOGRAFIA


  • Bulik C.M. et al., 1997, Eating disorders and antecedent anxiety disorders: a controlled study, Acta Psychiatr Scand, 96: 101-7
  • Marcus M.D., Wildes J.E., 2014, Application of the Research Domain Criteria (RDoC) framework to eating disorders: emerging concepts and research, Curr Psychiatry Rep 2015: 17:30
  • Klein M., 1945, Complesso edipico e angosce primitive, in Klein M., Scritti (1921-1958), Bollati Boringhieri Torino, pp 362-372
  • Mahler M., 1978, La nascita psicologica del bambino, Bollati Boringhieri, Torino
  • Field A.E. et al., 1999, Exposure to the mass media and weight concerns among girls, Pediatrics, 103(3):E36
  • Garner D.M., 1987, Body image measurement in eating disorders, Adv Psychosom Med., 17:119-33
Bibliografia
Questo è un contenuto divulgativo e non sostituisce la diagnosi di un professionista. Articolo revisionato dalla nostra redazione clinica

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