Caro supervisore interno, scrivo a te che sei fatto delle pagine lette, delle teorie ascoltate, delle ore di supervisione e intervisione, delle lezioni accademiche, dei seminari, delle sedute con i pazienti. Mi rivolgo a te per chiedere clemenza o forse per ricevere sostegno nel mio lavoro quotidiano.
Il confronto con i colleghi, con i maestri, con la teoria e la tecnica, sono aspetti fondamentali, ma alla fine, seduti su quella poltrona o davanti allo schermo, ci si può sentire soli. Così resti tu. Spesso faccio fatica a non percepirti come un giudice severo, soprattutto su determinati temi. Emozioni del terapeuta, controtransfert, empatia, risonanza, sono gli aspetti di cui vorrei discutere con te in questa lettera.
All’apparenza potrebbero sembrare temi con cui solo alcuni orientamenti teorici si trovano a fare i conti. In realtà le emozioni che proviamo come terapeuti nascono lontano dalle nostre teorie di riferimento. Emergono nella relazione e nel nostro essere umani, perché in definitiva è attraverso questo che ci prendiamo cura delle persone. Sebbene, caro supervisore interno, troverai molti riferimenti alla psicoanalisi in queste mie riflessioni, i temi che vorrei affrontare con te sono trasversali a tutti gli orientamenti (si vedano, per esempio Cionini, 2011; Liotti & Intreccialagli, 1992).
Non posso continuare a sentirmi un criminale della tecnica, “colpevole” (Heimann, 1950), un professionista fallito solo perché sono un essere umano oltre che un terapeuta. Credo che, in molti casi, costruire un setting impenetrabile a qualsiasi tipo di flessibilità, compresa quella relativa alla comunicazione di ciò che proviamo, sia in definitiva una gigantesca operazione difensiva.
Mi sembra in qualche modo disonesto comportarsi fingendo di essere uno ‘schermo bianco’ quando in realtà si è colmi di sentimenti, e che una reazione più sincera di una neutralità fittizia spesso renda il lavoro più profondo
Chiudere gli occhi per fermare qualcosa che è dentro me: dalle teorie alla seduta
Parto da qui, dalle lacrime. Con una paziente che seguo da un anno, quando nell’ultima seduta mi ha parlato della commozione del marito nell’ascoltare un sogno che esprimeva uno dei nodi critici affrontati nel percorso, i miei occhi si sono inumiditi. Non sapevo cosa fare o dire, non sapevo se la paziente mi avesse notato.
Immaginavo già alcuni dei docenti incontrati nel percorso formativo scuotere la testa inorriditi: “...Ma come? Dopo due anni di analisi a due sedute a settimana, centinaia di ore di supervisione, migliaia di pagine lette, ti commuovi? Allora non hai capito nulla di questo lavoro. Quante volte ti abbiamo detto che il terapeuta deve essere uno ‘schermo bianco’. Se ti emozioni, qualcosa nel tuo percorso formativo non è andato a buon fine, hai dei nodi irrisolti.”
A te posso dirlo, caro supervisore interno: credo che i pazienti ci scelgano anche per i nostri nodi irrisolti. Se cercassero uno schermo bianco astinente e rigido, potrebbero parlare con il muro.
Forse è solo una giustificazione per le lacrime che mi hanno appannato lo sguardo quando una paziente mi parlava della perdita del padre, esperienza che, anche se lei non lo sa ancora, ci accomuna. Per la rabbia che mi attanaglia la bocca dello stomaco quando un paziente che ho molto a cuore mi parla di come i genitori non capiscano i suoi progetti.
Non escludo che ci siano emozioni che si attivano in relazione ad aspetti miei, ma forse è anche questa la ricchezza di un percorso psicologico. Le persone cercano, in noi psicologi, dei testimoni che possano comprendere, più che oracoli che sappiano spiegare. Passare attraverso le esperienze e sopravvivere è un ottimo viatico alla comprensione. Questo però ci espone anche alla possibilità di parlare delle nostre esperienze, della nostra vita e delle nostre emozioni.
“Esiste un’enorme letteratura, che comprende alcune importanti controversie, sull’opportunità di riportare o meno ai pazienti le reazioni emotive che si avvertono in loro presenza, e se sì in quali circostanze farlo. La rivelazione di una risposta controtransferale è spesso una comunicazione intensa, complessa, provocatoria.” (Ibidem, p.208).
Le emozioni del terapeuta
“Parlar del più e del meno con un pescatore [..] per non sentir che dentro qualcosa muore”: il testo della canzone Emozioni di Battisti (1970) mi accompagna nella stesura di questa mia lettera, caro supervisore. Attraverso il nostro dialogo in seduta (Nissim Momigliano, 1992), creiamo la possibilità di “sciogliere le emozioni in narrazioni” attivando così importanti processi trasformativi (Neri, 2007).
Esprimere le emozioni assume importanza al pari di comprendere, interpretare e significare (Baruzzi, 1981). Creare metafore e immagini diviene uno strumento utile nella realizzazione di questo processo. Per fare questo, sono tuttavia indispensabili le risonanze personali del terapeuta (Vito, 2018). Rabbia, tristezza e paura sono le emozioni che più di frequente ci possono far stare scomodi sulla poltrona.
In concomitanza dei traguardi dei nostri pazienti, come la laurea, il matrimonio, la genitorialità e i successi lavorativi, anche la gioia percorre le nostre sedute. Quanto può essere importante per un paziente percepire la nostra testimonianza rispetto al suo dolore?
Può essere utile per i pazienti sapere, entro certi limiti e valutando attentamente il percorso, che anche noi abbiamo affrontato un lutto, ci siamo imbattuti nei pensieri legati al suicidio, nell’angoscia per problematiche familiari o lavorative, che ci arrabbiamo, siamo tristi, che spesso non abbiamo risposte, ma che ci rimbocchiamo le maniche per cercarle insieme?
Il controtransfert
Paula Heimann usa il termine controtransfert per indicare “tutti i sentimenti dell’analista verso il proprio paziente” (Heimann, 1950, p.81).
Con questo concetto l’autrice intende segnalare qualcosa di più e di diverso del transfert da parte del terapeuta. Il controtransfert diviene uno strumento di ricerca nell’inconscio del paziente e la partecipazione emotiva del terapeuta un prezioso strumento di lavoro.
L’obiettivo del percorso personale del terapeuta non è quindi quello di trasformarlo in una sorta di automa capace di interpretazioni come prodotto meramente intellettuale, ma di strutturarlo per ricevere dentro di sé le emozioni del paziente, tollerandole senza evacuarle. Senza la riflessione circa le proprie emozioni, il lavoro del terapeuta si impoverisce, aggiunge Heimann.
Sembra per certi aspetti fare da eco il contributo di Lini & Bertrando (2018) che, in ottica sistemica, teorizzano il concetto di “situarsi”, di “posizionamento” circa le proprie emozioni da parte del terapeuta come strumento utile a favorire il collocamento emotivo da parte del paziente (come se i due si trovassero insieme a consultare la carta geografica delle emozioni emergenti durante il percorso).
Mentre la Heimann mette in guardia rispetto ai rischi di rivelare al paziente cosa stiamo provando, la psicoanalista americana McWilliams si esprime a favore dell’espressione delle emozioni controtransferali del terapeuta (2008). Seguendo le tesi di Racker (1968), McWilliams dimostra come utilizzare il controtransfert possa essere utile per comprendere le dinamiche del paziente.
Individua, in particolare, due tipologie di controtransfert:
- controtransfert concordante: i sentimenti intensi nel terapeuta rispecchiano quelli nel paziente
- controtransfert complementare: i sentimenti che sperimenta il terapeuta sono simili a quelli frequentemente sperimentati da altre persone significative che si relazionano con il paziente.
Evidenzia l’utilità dell’essere sinceri nei confronti dei pazienti comunicando le emozioni che creano nel terapeuta attraverso il transfert. Fu in realtà Freud (1910) a inaugurare una riflessione teorica che vedeva invece nel controtransfert un ostacolo alla comprensione del paziente, un problema da risolvere con l’autoanalisi prima e, constatatane l’insufficienza, con l’analisi personale e didattica poi (Galimberti, 2018).
All’opposto, autori come Ferenczi prima, Jacobs, Searles e Sullivan poi, ritengono il controtransfert un aspetto insito nella relazione e nell’interazione paziente-analista evidenziando l’importanza dell’empatia di quest’ultimo nella terapia (Ibidem).
Come vedi, caro supervisore interno, non è facile trovare una posizione univoca.
Per esempio Mazzei (2019) mette in evidenza come nella terapia della Gestalt sia il professionista a cercare un equilibrio pur “autorizzandosi ad atteggiamenti aperti e spontanei”.
La risonanza emotiva del terapeuta
Se il controtransfert riguarda “il vissuto emotivo globale dell’analista nei confronti del paziente” o le “reazioni inconsce che il transfert del paziente induce nell’analista” (Galimberti, 2018, p.1280), cosa si intende per risonanza emotiva del terapeuta?
In questo caso si fa riferimento alle emozioni generate nel terapeuta dall’identificazione con il paziente sulla base di esperienze personali simili. Nel controtransfert si ha sostanzialmente un’attivazione emotiva “creata” dalle dinamiche relazionali e transferali del paziente. In questo secondo caso entrano in gioco le emozioni che si mobilitano nel terapeuta per il fatto di condividere un’esperienza personale, come un lutto o le preoccupazioni derivanti dalla genitorialità.
McWilliams (2008) discute diffusamente anche questo tema. Da un lato la condivisione di aspetti privati, l’autosvelamento, la rivelazione di informazioni personali, sembrano creare “aree comuni” capaci di rafforzare l’alleanza. In alcuni percorsi possono rappresentare dei veri e propri momenti di svolta.
L’autrice utilizza, però, un’efficace immagine per mettere in guardia da un uso eccessivo di questo tipo di comunicazione all’interno delle terapie, soprattutto per quanto riguarda i terapeuti più giovani. Afferma infatti che “se quanto è stato condiviso nel tentativo di rafforzare il legame sortisce l’effetto opposto, la rivelazione non può essere annullata.”
Altro aspetto di rischio messo in evidenza dalla psicoanalista americana, riguarda la possibile percezione di un “rovesciamento dei ruoli” che porterebbe il paziente a sentirsi invaso dalla “confidenza” del terapeuta bisognoso di conforto.
Infine McWilliams sottolinea l’importanza delle tempistiche nell’uso dell’autosvelamento. Infatti una comunicazione troppo precoce non sortisce effetti.
In generale può dunque essere utile riflettere su questi aspetti nel corso delle supervisioni o delle intervisioni, riflettere sul perché si sente la necessità di comunicare emozioni circa esperienze personali condivise, ragionare alla ricerca di eventuali tracce di acting, valutare attentamente il momento del percorso.
In alcuni casi parlare delle esperienze comuni può determinare una scossa, ma in altri può creare confusione e addirittura sconforto nel paziente.
L'empatia del terapeuta
La terminologia “empatia del terapeuta” fu usata a inizio Novecento da Titchener per tradurre la parola tedesca Einfühlung che significa “sentire dentro” (Galimberti, 2018, p.440). Il termine comparve in epoca romantica e fu lo psicologo e filosofo Lipps a spiegarlo come un processo in cui “ci si sente nell’oggetto o nella persona in cui ci si immedesima, pur conservando la coscienza della propria identità come identità separata” (Galimberti, 2018, p. 440).
Freud (1921) ne parla come sinonimo di immedesimazione e come strumento che permette all’analista di conoscere parti sconosciute agli stessi analizzandi. Bolognini (2002) riporta le considerazioni di Pigman (1995) secondo cui la titubanza di Freud rispetto alle emozioni dell’analista e la paura dell’eccessivo coinvolgimento, avrebbero condizionato la percezione circa l’empatia.
Anche quando nel 1928 Ferenczi pubblica L’elasticità della tecnica psicoanalitica parlando di tatto e di empatia, Freud esprime preoccupazione circa i rischi di “arbitrarietà, eccessi di soggettività” (Bolognini, 2002, p.37). Più recentemente sarà soprattutto lo psicoanalista Kohut a sottolineare l’importanza dell’empatia nel rapporto terapeutico come in quello madre-bambino, dove diviene fondamentale nella formazione di un Sé dotato di coesione (Galimberti, 2018).
Affetti del terapeuta, condivisione, controtransfert vengono analizzati in rapporto all’empatia da Bolognini (2002). Lo psicoanalista bolognese, già presidente della International Psychoanalytical Association, mette in evidenza come l’atteggiamento rispetto alla rigidità del setting classico sia stata abbandonata in favore di una maggiore disponibilità a lavorare con le emozioni del terapeuta. L’empatia diviene quindi una risorsa, ma comporta allo stesso tempo dei rischi.
Le emozioni del terapeuta tra riservatezza e self-disclosure
La self-disclosure del terapeuta è un altro argomento di grande dibattito. Il professionista deve essere del tutto riservato circa la propria esperienza personale, oppure può mettere al corrente il paziente non solo delle proprie emozioni, ma anche delle proprie situazioni di vita?
Quando, per esempio, un paziente ci chiede se siamo sposati o se abbiamo figli, cerca di capire se siamo di destra o di sinistra, come dobbiamo comportarci? Ancora una volta il confronto con i colleghi e con la teoria rappresenta una bussola importante.
Come visto in precedenza, McWilliams (2008) ci dimostra che, in ogni caso, finiremmo per rispondere alle domande del paziente con dettagli fatti trapelare inconsciamente o involontariamente, come in occasione della gravidanza della psicologa.
Il dipanarsi di una seduta richiede di decidere rapidamente se rispondere in modo trasparente o difenderci con un’altra domanda. In questo modo possiamo sentirci a disagio e nella condizione di perdere il controllo. Può essere utile valutare a livello di transfert-controtransfert cosa percepiamo in quelle domande. Sono attacchi aggressivi? Sono un modo per cercare rassicurazione attraverso la possibilità di identificarsi con il terapeuta-testimone?
In un caso ci sentiremo chiamati a difenderci, intrusi, invasi, a disagio. Nel secondo sperimenteremo, invece, la convocazione a essere di aiuto tramite la condivisione della nostra esperienza.
In altre situazioni ci possiamo sentire nella condizione di dire qualcosa di noi senza essere interrogati dai pazienti. Anche in questo caso è importante riflettere sul perché avvertiamo questa esigenza, se quanto stiamo per dire ha un senso da un punto di vista clinico e, soprattutto, sul momento del percorso in cui ci troviamo.
L’autosvelamento deve, infatti, avvenire con il giusto timing, altrimenti può risultare inefficace o dannoso. Occorre valutare caso per caso in base alla propria formazione teorica, alla propria sensibilità clinica, alla tipologia di relazione e di paziente. Può essere altrettanto utile riflettere se, nella nostra esigenza di essere “schermi bianchi”, non ci siano tendenze difensive.
Emozioni del terapeuta e successo della terapia
Bolognini nel suo libro L’empatia psicoanalitica (2002), afferma che la condivisione assume valenza terapeutica soprattutto con i pazienti che “vivono un disturbo nel contatto con se stessi. Con le persone, cioè, che non hanno semplicemente bisogno di essere informate circa la loro vita interiore, ma che devono essere aiutate a farne esperienza, utilizzando a tale scopo la relazione e la convivenza mentale con l’analista.”
Non sembrano esserci dubbi, dunque, sui vantaggi di un approccio basato sulla partecipazione emotiva del terapeuta. Del resto, come ormai noto, è la relazione a determinare l’effettiva efficacia di un trattamento ben oltre la specificità dell’orientamento teorico di riferimento (Flückiger et al., 2018).
Ci sono tuttavia dei rischi. La regolazione delle emozioni è, infatti, uno degli obiettivi di numerose terapie, dai disturbi di personalità ai disturbi ansiosi. Se il terapeuta fallisce in questo delicato lavoro, è possibile che si generino confusione, disagio, sofferenza. I pazienti potrebbero, a questo punto, mettere in atto degli agiti oppure interrompere la terapia.
La difficoltà nel regolare le proprie emozioni e, di conseguenza, quelle del paziente, può derivare da diversi fattori:
- il terapeuta non è in grado di accogliere e metabolizzare le emozioni derivanti dal transfert del paziente e finisce per evacuarle rapidamente senza permetterne l’adeguato contenimento
- il terapeuta non riesce a gestire le risonanze e, identificandosi nelle esperienze del paziente, crea commistione tra i diversi piani emotivi, mescolandoli.
Quali strumenti abbiamo per difenderci da questi pericoli?
Supervisione, intervisione e non sol
In caso di momenti di empasse, di difficoltà o crisi abbiamo una serie di strumenti fondamentali a nostro supporto:
- supervisioni e intervisioni
- studio della teoria: il confronto con gli autori, lo studio della letteratura, la frequenza di eventi formativi e seminari
- ripresa del percorso personale: normalmente le scuole di specializzazione in psicoterapia prevedono, come parte integrante del percorso formativo, un’analisi didattica o una serie di sedute per approfondire aspetti personali
- confronto con il supervisore interno: frutto di tutti gli aspetti menzionati prima, si configura come una risorsa interna fondamentale nello sviluppare metariflessione sul nostro operato.
A questo riguardo può essere interessante la riflessione di Cionini (2007) che, nella cornice della psicoterapia cognitivo comportamentale, riflette sulla formazione del terapeuta parlando di formazione teorica, formazione pratica, formazione tecnico-professionale e supervisione come i pilastri del sapere, del saper fare e del saper essere del terapeuta.
"E ricoprir di terra una piantina verde, sperando possa nascere un giorno una rosa rossa"
Caro supervisore interno, prendo ancora in prestito questa immagine dalla canzone Emozioni di Lucio Battisti. Credo descriva bene il nostro lavoro e che, come tante delle considerazioni emerse in questa lettera, possa essere comune a tanti colleghi, trasversalmente ai diversi approcci terapeutici. Un gesto di cura come quello che permette di ricoprire di terra una piantina. La speranza che possa trasformarsi, cambiare, fiorire. In un certo senso è quello che facciamo nelle nostre sedute.
Le nostre emozioni, la nostra capacità di ascoltarle per comprendere, pensare e curare, sono terreno fertile. La tenerezza, che Gaburri (2014) definisce come “un rapimento intenerito dinanzi alle diversità dell’altro” e Correale (2021) come “commozione davanti alla vita nuda di una persona”, l’humus che mai deve mancare.
Bibliografia
- Baruzzi, A. (1981). Bion sull’esprimersi. Rivista di Psicoanalisi, 27, 3-4, 136-147
- Bolognini, S. (2002). L’empatia psicoanalitica. Torino: Bollati Boringhieri
- Cionini, L. (2007). La costruzione del sapere, saper fare, saper essere dello psicoterapeuta cognitivista: analisi di un modello di formazione.
- Cionini, L. (2011). Transfert e controtransfert, le emozioni in psicoterapia: l'ottica cognitivo-costruttivista. Il nostro mare affettivo: la psicoterapia come viaggio, 15-22, Roma: Alpes Italia
- Correale, A. (2021), Il Trauma Borderline, seminario tenuto in data 8 maggio 2021 presso l’Istituto di Psicoterapia Psicoanalitica di Torino
- Ferenczi, S. (1928). The elasticity of psycho-analytic technique. Final contributions to the problems and methods of psycho-analysis, London: Karnac Books.
- Freud, S. (1910). Le prospettive future della terapia psicoanalitica. OSF, vol. 6, 197-206, Torino: Boringhieri.
- Freud, S. (1921). Psicologia delle Masse e Analisi dell’Io. Torino: Boringhieri
- Flückiger, C., Del Re, A. C., Wampold, B. E., & Horvath, A. O. (2018). The alliance in adult psychotherapy: A meta-analytic synthesis. Psychotherapy, 55(4), 316–340
- Gaburri, E. (2014). Navigando l’Inconscio. Scritti scelti. Milano-Udine: Mimesis, a cura di Paolo Chiari e Marco Sarno
- Galimberti, U. (2018). Nuovo Dizionario di Psicologia, Psichiatria, Psicoanalisi, Neuroscienze. Milano: Feltrinelli
- Goldfried, M. (2000). Dalla terapia cognitivo-comportamentale all'integrazione delle psicoterapie (Vol. 18). Roma: Sovera Edizioni
- Heimann, P. (1950). On Counter-Transference. The International Journal of Psychoanalysis, 31, 81–84
- Liotti, G., Intreccialagli, B. (1992), I sistemi comportamentali interpersonali nella relazione terapeutica. G. Sacco, L. Isola (a cura di), La relazione terapeutica nelle terapie cognitive, Roma: Melusina Editrice
- Lini, C., & Bertrando, P. (2018). Situarsi: posizionamento ed emozioni in terapia sistemica. Terapia Familiare, (2018/117)
- Mazzei, S. (2019). La follia del terapeuta: il controtransfert nella psicoterapia della gestalt e nella body-Psychotherapy. “Qui e Ora”, rivista di Gestalt
- McWilliams, N. (2008). Psicoterapia Psicoanalitica. Milano: Raffaello Cortina
- Neri, C. (2007). La nozione allargata di campo in psicoanalisi, Rivista di Psicoanalisi. I, Roma: Borla, 103-134
- Nissim Momigliano, L. (1984). Due persone che parlano in una stanza. Una ricerca sul dialogo analitico. Nissim Momigliano L., Robutti A. (a cura di), L’esperienza condivisa. Saggi sulla relazione analitica, (1992). Milano: Cortina
- Pigman, G. W. (1995). Freud and the history of empathy. The International Journal of Psychoanalysis. 76(2), 237–256
- Racker, H. (1968). Studi sulla tecnica psicoanalitica. Transfert e Controtransfert. Roma: Armando Editore
- Vito, A. (a cura di) (2018). Il sé e le emozioni del terapeuta. Napoli: Luigi Guerriero Editore.